lunedì 31 ottobre 2011

C'era una volta: la Grande Strada delle Dolomiti




La prima automobile giunse a Cortina nel 1894.
Proveniva da Innsbruck (Cortina allora era austriaca).
In valle erano attivi sei alberghi.
La prima auto proveniente dall'Italia, in particolare da Ferrara, arrivò invece il 6 marzo 1903. Era una vettura lussuosa con a bordo il marchese di Bagno e i conti Monti.
Nel 1909 venne aperta la  Grande Strada delle Dolomiti, itinerario che conduce da Bolzano a Cortina attraverso i grandi passi, ancor oggi una delle strade alpine più belle d'Europa.




La rotabile, che comprende anche i passi dolomitici più famosi (Pordoi e Falzarego), fu ultimata dagli austriaci nel 1909 e, sebbene progettata per scopi bellici, servì ad incrementare il turismo sulle Dolomiti che prima era composto solo da pochi aristocratici austriaci.
Da Merano si scende a Bolzano e si prosegue in direzione Nord-Est verso la stretta gola che a destra apre la Val d'Ega per giungere a Ponte Nova. Si svolta ora a sinistra verso Nova Levante (1187 m.) lungo la strada che conduce al Passo di Costalunga (1745 m.): poco prima del passo, a destra, si trova il Lago di Carezza uno dei laghi dolomitici più famosi e sulle cui acque dai toni verdi e blu si rispecchiano il Catinaccio a Est ed il Latemar a Sud. Dal lago al passo la strada è breve e non presenta difficoltà. La discesa lungo il versante Est inizia dapprima senza particolare pendenza per essere poi più ripida e tortuosa fino a giungere a Vigo di Fassa, nella valle omonima. Questa si percorre verso Nord fino ad arrivare a Canazei (1465 m.) tramite una comoda strada che attraversa i vari paesi del fondovalle per salire poi ripida verso il Passo del Pordoi (2239 m.). Lungo questo tratto lo sguardo si perde verso il gruppo del Sasso Lungo a Nord-Ovest, verso il massiccio del Sella a Nord e verso la Marmolada ed il suo ghiacciaio a Sud. L'asfalto è coperto da scritte che incitano i ciclisti del Giro d'Italia in quanto il Passo Pordoi viene inserito spesso nell'itinerario della prestigiosa gara ciclistica e molti sono i partecipanti che lungo questa salita decidono in bene o in male l'esito di 3 settimane di gara. Giunti in cima al passo si nota a sinistra la funivia che porta in cima al Sass Pordoi nel gruppo del Sella a 3.000 metri di altitudine. 


La strada scende ora con 33 tornanti in direzione di Arabba per poi sfiorare il Col di Lana (2452 m.) teatro della l° Guerra Mondiale e risalire lungo i tornanti che conducono al Passo del Falzarego (2105 m.). La strada si presenta in buone condizioni, la pendenza massima è dell'8% e dopo 20 tornanti si giunge al Passo. Da qui il panorama spazia fino al ghiacciaio della Marmolada (3343 m.) verso Sud Ovest, mentre è chiuso a Ovest dal Sas di Stria (2477 m.) e a Sud dal Averau. Si scende quindi a Cortina dove non mancano certo negozi lungo il viale pedonale e ristoranti per il pranzo.
Degno di nota è il Lago Ghedina posto sotto le Tofane dove è anche possibile pranzare presso l'omonimo rifugio. Da Cortina si parte ora verso il Passo Falzarego e da questo si devia a destra per salire al Passo di Valparola (2192 m.) posto sotto i Lagazuoi e le Tofane e scendere verso la Val di S. Cassiano per giungere in Val Badia presso l'abitato di La Villa. Quest'ultimo ospita in inverno la Coppa del Mondo di Sci presso la pista della Gran Risa dove si svolge il celebre Slalom. 


Sulla destra si nota l'imponente Croda di S. Croce per poi partire verso sinistra in direzione di Corvara in Val Badia, altro centro turistico rinomato sia durante la stagione estiva che durante quella invernale: da qui è possibile percorrere l'itinerario del "Sella Ronda" che permette di compiere sci ai piedi il giro del massiccio del Sella sia in senso orario che antiorario grazie ad una serie di piste da sci e di impianti di risalita collegati tra loro. Si lascia ora Corvara per salire verso Ovest in direzione di Colfosco e quindi del Passo di Gardena (2121 m.) posto sotto le pendici settentrionali del Sella. Il panorama che si gode da questo punto spazia fino alle Tofane verso Est, mentre a Ovest si nota il Sasso Lungo. Una serie di ampi tornanti immette all'imbocco della Val Gardena, alla quale si accede svoltando a destra all'unico bivio che si incontra scendendo dal passo. La Val Gardena presenta tutti i caratteri tipici della cultura ladina che si manifestano nei costumi tipici e nelle abitazioni e nell'atmosfera che si respira nei centri di Selva di Val Gardena, di Santa Cristina e di Ortisei


Tutta la valle è ricca di strutture ricettive che ospitano i numerosissimi turisti che la animano in estate come in inverno e numerosi sono anche gli artigiani e i negozi che producono e vendono sculture in legno con una tradizione che si tramanda di generazione in generazione. Appena dopo l'abitato di Ortisei si svolta a sinistra per salire al Passo di Pinei lungo una strada che offre i migliori panorami di Ortisei disteso sotto il Monte Seceda (2518 m.) al quale si può accedere grazie ad una comoda funivia. 


Scendendo dal passo si attraversa il paese di Castelrotto e si inizia a scorgere lo Sciliar (2563 m.) che si lascia sempre a sinistra per giungere a Fiè allo Sciliar. Poco prima di quest'ultimo si trova Siusi da dove parte la strada che verso Est conduce all'omonimo altopiano ricco di passeggiate e di pascoli chiuso a Est dal Sasso Lungo e dal Sasso Piatto. Da Fiè a Sciliar la strada scende decisa a Prato all'Isarco dove ci si immette sulla strada statale che conduce a Bolzano poi a Merano.


fonte: www.tornanti.it

domenica 30 ottobre 2011

I Comuni della Ladinia (terza parte)

la sede del Comune di Cortina (settembre 2011 - foto SCKW)

                  

L'iniqua tripartizione del 1923 determinò la disgregazione del popolo ladino nelle tre Province di Belluno, Bolzano e Trento, con conseguenze negative mai più risanate.

Il quadro dell'assetto amministrativo odierno è riassunto nell'interessante tabella che riporta anche il totale della popolazione (oltre 36 mila abitanti) residenti nell'area virtuale della Ladinia:

Comune In ladino In tedesco Provincia Estensione territoriale Popolazione 
Cortina d'Ampezzo Anpezo Hayden Belluno 254,51 km² 6.150
Ortisei Urtijëi Sankt Ulrich Bolzano 24 km² 4.569
Badia Badia Abtei Bolzano 82 km² 3.237
Marebbe Mareo Enneberg Bolzano 161 km² 2.684
Moena Moena - Trento 82 km² 2.628
Selva di Val Gardena Sëlva Wolkenstein in Gröden Bolzano 53 km² 2.589
Pozza di Fassa Poza - Trento 73 km² 1.983
Canazei Cianacei - Trento 67 km² 1.844
Santa Cristina Valgardena S. Crestina-Gherdëina St. Christina in Gröden Bolzano 31 km² 1.840
San Martino in Badia San Martin de Tor Sankt Martin in Thurn Bolzano 76 km² 1.727
Livinallongo del Col di Lana Fodom Buchenstein Belluno 99 km² 1.436
Corvara in Badia Corvara Corvara, in passato Kurfar Bolzano 42 km² 1.266
La Valle La Val Wengen Bolzano 39 km² 1.251
Vigo di Fassa Vich - Trento 26 km² 1.142
Campitello di Fassa Ciampedel - Trento 25 km² 732
Soraga Sorèga - Trento 19 km² 677
Mazzin Mazin - Trento 23 km² 440
Colle Santa Lucia Col Verseil Belluno 15 km² 418
TOTALE - - - 1.191 km² 36.613

giovedì 27 ottobre 2011

"La più grande ingiustizia" - Storia della Ladinia (seconda parte)



 
Riduzione dell'area linguistica XVII

All'inizio del XVII secolo il ladino si parla ancora nella frazione di Castelrotto San Michele, a Neva Ladina (Nova Levante). Ladini sono la Val di Fiemme, il Cadore, Zoldo, Agordo. Ladina è l'Alta Val Venosta, che nel XVII secolo viene germanizzata con il divieto dell'uso della lingua ladina e delle tradizioni ladine. Oltre il confine svizzero (Müstair) la popolazione ancora oggi parla ladino.

 
Tedeschizzazione dei nomi

Molti cognomi ladini oggi hanno desinenze tipicamente tedesche - sono stati germanizzati sistematicamente; il torto non è mai stato rimediato.


Nazionalismo nel XIX secolo

Nel XIX secolo il nazionalismo nel Tirolo tenta di tedeschizzare i Ladini: L'unica lingua nella scuola, nella chiesa e nella vita pubblica deve essere il tedesco. Popolazione e Chiesa si oppongono decisamente ("Enneberger Schulstreit", 1873).
Un altro tentativo massiccio di germanizzare i Ladini viene fatto nel 1916. Questa volta si vuole assimilare innanzi tutto la Val Badia. Nelle scuole e nelle chiese deve essere usato soltanto il tedesco. Deve essere evitato il termine "germanizzazione", dice il relativo decreto ...

Coscienza ladina

Nel XIX secolo nasce una coscienza nazionale ladina diffusa. Esiste da tempo la convinzione che il ladino è una lingua propria.
Nel 1870 presso il seminario a Bressanone nasce l'unione "Naziun Ladina".
Nel 1905 ad Innsbruck viene fondata la "Uniun Ladina".
Vengono pubblicati i primi giornali ladini e i "calëndri" (calendari-cronaca).



Prima guerra mondiale

Durante la guerra il fronte passa in mezzo alla Ladinia (Cristallo, Tofanes, Col de Lana, Marmolada). Fodom (Livinallongo) viene diviso in due. Le truppe italiane occupano Anpezo nonché la parte di Fodom che le truppe austriache avevano abbandonato per motivi strategici. In seguito le truppe austriache sparano granate su Fodom (sui loro stessi paesi e sulla propria popolazione dunque) a causa della presenza delle truppe italiane. La Plié (Pieve) viene distrutta completamente. In Fodom vengono abbattute 301 case (fienili non inclusi), ne rimangono soltanto 55. A molti Fodomi non rimane che la fuga - fino in Boemia e negli Abbruzzi, ma anche nelle valli vicine.

Italia

Nel 1919 la Ladinia con il Sudtirolo viene aggregata all'Italia. I Ladini chiedono unitamente di rimanere con l'Austria nonché il riconoscimento come gruppo etnico (non concesso sotto l'Austria), l'autonomia politica e la tutela della lingua ladina:
"Noi Ladini non siamo una minoranza italiana nel Sudtirolo, come i signori a Trento vanno a raccontare al governo italiano e al mondo intero - ma siamo un popolo proprio e libero, il più antico dei popoli del Tirolo".

Il fascismo dichiara il ladino dialetto italiano
 
È un'asserzione in netta contraddizione con le più prestigiose ricerche linguistiche. Fino ad oggi in certi ambienti è rimasta la convinzione che il ladino sia un dialetto alpino italiano e non una lingua propria. Per arrivare a tale conclusione bisogna interpretare in maniera un po' particolare le analisi glottologiche. Come spiegare p.e. il -s del plurale nel ladino, particolarità che non si trova in nessun dialetto italiano? O anche il -s della seconda persona del verbo (p.e. te dijes - tu dici). Se dunque il ladino è un dialetto e non una lingua, allora semmai sarebbe un dialetto francese ...
Fu proprio in questo periodo di attacco all'esistenza stessa del ladino che la popolazione svizzera dichiarò, in un referendum, a grandissima maggioranza, il romancio quarta lingua nazionale.
Uno degli oppositori di spicco alla teoria di ladino dialetto italiano fu Pier Paolo Pasolini: "Lingua ladina dunque", scrive il grande intellettuale e poeta, "non dialetto alpino".

Nel 1920, durante un incontro di esponenti ladini, nasce la bandiera ladina: Azzurro per il cielo, bianco per le montagne coperte di neve, verde per i prati: Un simbolo del paesaggio dolomitico.

Tripartizione

1923 La Ladinia viene tripartita amministrativamente:

Anpezo e Fodom con Col vengono aggregati alla provincia di Belluno, nel 1927 la Val Badia e Gherdëina vengono aggregate alla nuova provincia di Bolzano, Fassa rimane con la provincia di Trento.
L'obiettivo della tripartizione è la rapida assimilazione dei Ladini.
L'ingiustizia della tripartizione fascista - la più grande ingiustizia mai inflitta ai Ladini - è tuttora in vigore; le maggioranze delle tre province, dove vivono Ladini, non hanno l'intenzione di rinunciare alla possibilità di determinare il destino dei "loro" Ladini, non rinunciano alla subordinazione istituzionale dei Ladini. Nel 1964 la chiesa adegua i confini diocesani ai confini politico- amministrativi, completando così la tripartizione.

Nel 1939 alle opzioni i Ladini delle province di Bolzano e Belluno vengono classificati come "allogeni" e devono optare, assieme ai Tedeschi del Sudtirolo, sebbene dal fascismo il ladino sia stato dichiarato "dialetto italiano". Ovviamente il fascismo non crede alla sua teoria.

fonte:www.vejin.com

martedì 25 ottobre 2011

Lo Spirito di Assisi (1986-2011)




DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II AI RAPPRESENTANTI DELLE DIVERSE CHIESE E COMUNIONI CRISTIANE CONVENUTI IN ASSISI PER LA GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LA PACE

Basilica di Santa Maria degli Angeli
Domenica, 27 ottobre 1986


Miei fratelli e sorelle,
Capi e rappresentanti delle Chiese cristiane e comunità ecclesiali e delle religioni del mondo,
Cari amici.


1. Ho l’onore e il piacere di dare a voi tutti benvenuto in questa città di Assisi per la Giornata mondiale di preghiera. Permettetemi di cominciare col ringraziarvi dal profondo del mio cuore per l’apertura e la buona volontà con cui avete accolto l’invito a pregare ad Assisi.
Come capi religiosi, voi non siete venuti qui per una conferenza interreligiosa sulla pace, in cui prevarrebbero la discussione o la ricerca di piani di azione a livello mondiale in favore di una causa comune.
Il trovarsi insieme di tanti capi religiosi per pregare è di per sé un invito oggi al mondo a diventare consapevole che esiste un’altra dimensione della pace e un altro modo di promuoverla, che non è il risultato di negoziati, di compromessi politici o di mercanteggiamenti economici. Ma il risultato della preghiera, che, pur nella diversità di religioni, esprime una relazione con un potere supremo che sorpassa le nostre capacità umane da sole. Noi veniamo da lontano non solo, per molti di noi, a motivo di distanze geografiche, ma soprattutto a causa delle nostre origini storiche e spirituali.


2. Il fatto che noi siamo venuti qui non implica alcuna intenzione di ricercare un consenso religioso tra noi o di negoziare le nostre convinzioni di fede. Né significa che le religioni possono riconciliarsi sul piano di un comune impegno in un progetto terreno che le sorpasserebbe tutte. Né esso è una concessione a un relativismo nelle credenze religiose, perché ogni essere umano deve sinceramente seguire la sua retta coscienza nell’intenzione di cercare e di obbedire alla verità.
Il nostro incontro attesta soltanto - questo è il vero significato per le persone del nostro tempo - che nel grande impegno per la pace, l’umanità, nella sua stessa diversità, deve attingere dalle sue più profonde e vivificanti risorse, in cui si forma la propria coscienza e su cui si fonda l’azione di ogni popolo.


3. Vedo l’incontro odierno come un segno molto eloquente dell’impegno di tutti voi per la causa della pace. È proprio questo impegno che ci ha condotti ad Assisi. Il fatto che noi professiamo differenti fedi non ci distoglie il significato di questa Giornata. Al contrario, le Chiese, le comunità ecclesiali e le religioni del mondo stanno dimostrando che sono pensose del bene. La pace, dove esiste, è estremamente fragile. È minacciata in tanti modi e con tali imprevedibili conseguenze da obbligarci a procurarle solide basi.
Senza negare in alcun modo la necessità di molte risorse umane volte a mantenere e rafforzare la pace, noi siamo qui perché siamo sicuri che, al di sopra e al di là di tutte quelle misure, c’è bisogno di preghiera intensa e umile, di preghiera fiduciosa, se si vuole che il mondo diventi finalmente un luogo di pace vera e permanente.
Questa Giornata è perciò un giorno destinato alla preghiera e a ciò che accompagna la preghiera nelle nostre tradizioni religiose: silenzio, pellegrinaggio e digiuno. Non prenderemo alcun pasto, e in questo modo diverremo più coscienti del bisogno universale di penitenza e di trasformazione interiore.


4. Le nostre tradizioni sono molte e varie, e riflettono il desiderio di uomini e donne lungo il corso dei secoli di entrare in relazione con l’Essere Assoluto. La preghiera comporta da parte nostra la conversione del cuore. Vuol dire approfondire la nostra percezione della Realtà ultima. Questa è la stessa ragione per cui noi siamo convenuti in questo luogo.
Andremo da qui ai nostri separati luoghi di preghiera. Ciascuna religione avrà il tempo e l’opportunità di esprimersi nel proprio rito tradizionale. Poi dal luogo delle nostre rispettive preghiere, andremo in silenzio verso la piazza inferiore di San Francesco. Una volta radunati in quella piazza, ciascuna religione avrà di nuovo la possibilità di presentare la propria preghiera, l’una dopo l’altra.
Dopo aver così pregato separatamente, mediteremo in silenzio sulla nostra responsabilità di operare per la pace. Esprimeremo poi simbolicamente il nostro impegno per la pace. Alla fine della Giornata, io cercherò di riassumere che cosa questa celebrazione che non ha precedenti avrà suggerito al mio cuore, come un credente in Gesù Cristo e come primo servitore della Chiesa cattolica.


5. Desidero esprimere di nuovo la mia gratitudine a voi di essere venuti ad Assisi per pregare.
Ringrazio anche tutte le singole persone e le comunità religiose che si sono associate alla nostra preghiera. Ho scelto questa città come luogo per la nostra Giornata di preghiera in un vero silenzio interiore per il particolare significato dell’uomo santo qui venerato - san Francesco - conosciuto e riverito da tanti attraverso il mondo come simbolo della pace, riconciliazione e fraternità.
Ispirandoci al suo esempio, alla sua mitezza e alla sua umiltà, disponiamo i nostri cuori alla preghiera di un vero silenzio interiore. Facciamo di questa Giornata una anticipazione di un mondo pacifico. Possa la pace venire a noi e riempire i nostri cuori!

domenica 23 ottobre 2011

C'era una volta: San Martino di Castrozza

Non abbiate paura !



Il 22 ottobre, data prescelta per la festa del beato Giovanni Paolo II, ricorda l'inizio del  ministero petrino (domenica 22 ottobre 1978), sei giorni dopo l'elezione avvenuta il 16 ottobre. Riportiamo la celeberrima omelia pronunciata in quell'occasione.

1. "Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,16).
Queste parole ha pronunciato Simone figlio di Giona, nella regione di Cesarea di Filippo. Sì, le ha espresse con la propria lingua, con una profonda, vissuta, sentita convinzione, ma esse non trovano in lui la loro fonte, la loro sorgente: "...perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli" (Mt 16,17). Queste erano parole di Fede.
Esse segnano l'inizio della missione di Pietro nella storia della salvezza, nella storia del Popolo di Dio. Da allora, da tale confessione di Fede, la storia sacra della salvezza e del Popolo di Dio doveva acquisire una nuova dimensione: esprimersi nella storica dimensione della Chiesa. Questa dimensione ecclesiale della storia del Popolo di Dio trae le sue origini, nasce infatti da queste parole di Fede e si allaccia all'uomo che le ha pronunciate: "Tu sei Pietro ­ roccia, pietra ­ e su di te, come su una pietra, io costruirò la mia Chiesa".

2. Quest'oggi e in questo luogo bisogna che di nuovo siano pronunciate ed ascoltate le stesse parole: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente".
Sì, Fratelli e Figli, prima di tutto queste parole.
Il loro contenuto dischiude ai nostri occhi il mistero di Dio vivente, mistero che il Figlio conosce e che ci ha avvicinato. Nessuno, infatti, ha avvicinato il Dio vivente agli uomini, nessuno Lo ha rivelato come l'ha fatto solo lui stesso. Nella nostra conoscenza di Dio, nel nostro cammino verso Dio siamo totalmente legati alla potenza di queste parole "Chi vede me, vede pure il Padre". Colui che è Infinito, inscrutabile, ineffabile si è fatto vicino a noi in Gesù Cristo, il Figlio unigenito, nato da Maria Vergine nella stalla di Betlemme.
­Voi tutti che già avete la inestimabile ventura di credere, ­ voi tutti che ancora cercate Dio, ­ e pure voi tormentati dal dubbio:vogliate accogliere ancora una volta ­ oggi e in questo sacro luogo ­ le parole pronunciate da Simon Pietro. In quelle parole è la fede della Chiesa. In quelle stesse parole è la nuova verità, anzi, l'ultima e definitiva verità sull'uomo: il figlio del Dio vivente. "Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivente"!

3. Oggi il nuovo Vescovo di Roma inizia solennemente il suo ministero e la missione di Pietro.
In questa Città, infatti, Pietro ha espletato e ha compiuto la missione affidatagli dal Signore.
Il Signore si rivolse a lui dicendo: "...quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi" (Gv 21,18).
Pietro è venuto a Roma!
Cosa lo ha guidato e condotto a questa Urbe, cuore dell'Impero Romano, se non l'obbedienza all'ispirazione ricevuta dal Signore? Forse questo pescatore di Galilea non avrebbe voluto venire fin qui. Forse avrebbe preferito restare là, sulle rive del lago di Genesaret, con la sua barca, con le sue reti. Ma, guidato dal Signore, obbediente alla sua ispirazione, è giunto qui!
Secondo un'antica tradizione (che ha trovato anche una sua magnifica espressione letteraria in un romanzo di Henryk Sienkiewicz), durante la persecuzione di Nerone, Pietro voleva abbandonare Roma. Ma il Signore è intervenuto: gli è andato incontro. Pietro si rivolse a lui chiedendo: "Quo vadis, Domine?" (Dove vai, Signore?). E il Signore gli rispose subito: "Vado a Roma per essere crocifisso per la seconda volta". Pietro tornò a Roma ed è rimasto qui fino alla sua crocifissione.
Sì, Fratelli e Figli, Roma è la Sede di Pietro. Nei secoli gli sono succeduti in questa Sede sempre nuovi Vescovi. Oggi un nuovo Vescovo sale sulla Cattedra Romana di Pietro, un Vescovo pieno di trepidazione, consapevole della sua indegnità. E come non trepidare di fronte alla grandezza di tale chiamata e di fronte alla missione universale di questa Sede Romana?!
Alla Sede di Pietro a Roma sale oggi un Vescovo che non è romano. Un Vescovo che è figlio della Polonia. Ma da questo momento diventa pure lui romano. Sì, romano! Anche perché figlio di una nazione la cui storia, dai suoi primi albori, e le cui millenarie tradizioni sono segnate da un legame vivo, forte, mai interrotto, sentito e vissuto con la Sede di Pietro, una nazione che a questa Sede di Roma è rimasta sempre fedele. Oh, inscrutabile è il disegno della divina Provvidenza!

4. Nei secoli passati, quando il Successore di Pietro prendeva possesso della sua Sede, si deponeva sul suo capo il triregno, la tiara. L'ultimo incoronato è stato Papa Paolo VI nel 1963, il quale, però, dopo il solenne rito di incoronazione non ha mai più usato il triregno lasciando ai suoi Successori la libertà di decidere al riguardo.
Il Papa Giovanni Paolo I, il cui ricordo è così vivo nei nostri cuori, non ha voluto il triregno e oggi non lo vuole il suo Successore. Non è il tempo, infatti, di tornare ad un rito e a quello che, forse ingiustamente, è stato considerato come simbolo del potere temporale dei Papi.
Il nostro tempo ci invita, ci spinge, ci obbliga a guardare il Signore e ad immergere in una umile e devota meditazione del mistero della suprema potestà dello stesso Cristo.
Colui che è nato dalla Vergine Maria, il Figlio del falegname ­ come si riteneva ­, il Figlio del Dio vivente, come ha confessato Pietro, è venuto per fare di tutti noi "un regno di sacerdoti".
Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato il mistero di questa potestà e il fatto che la missione di Cristo ­ Sacerdote, Profeta-Maestro, Re ­ continua nella Chiesa. Tutti, tutto il Popolo di Dio è partecipe di questa triplice missione. E forse nel passato si deponeva sul capo del Papa il triregno, quella triplice corona, per esprimere, attraverso tale simbolo, che tutto l'ordine gerarchico della Chiesa di Cristo, tutta la sua "sacra potestà" in essa esercitata non è altro che il servizio, servizio che ha per scopo una sola cosa: che tutto il Popolo di Dio sia partecipe di questa triplice missione di Cristo e rimanga sempre sotto la potestà del Signore, la quale trae le sue origini non dalle potenze di questo mondo, ma dal Padre celeste e dal mistero della Croce e della Risurrezione.
La potestà assoluta e pure dolce e soave del Signore risponde a tutto il profondo dell'uomo, alle sue più elevate aspirazioni di intelletto, di volontà, di cuore. Essa non parla con un linguaggio di forza, ma si esprime nella carità e nella verità.
Il nuovo Successore di Pietro nella Sede di Roma eleva oggi una fervente, umile, fiduciosa preghiera: "O Cristo! Fa' che io possa diventare ed essere servitore della tua unica potestà! Servitore della tua dolce potestà! Servitore della tua potestà che non conosce il tramonto! Fa' che io possa essere un servo! Anzi, servo dei tuoi servi".

5. Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà!
Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l'uomo e l'umanità intera!
Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa "cosa è dentro l'uomo". Solo lui lo sa!
Oggi così spesso l'uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi ­ vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia ­ permettete a Cristo di parlare all'uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna.
Proprio oggi la Chiesa intera celebra la sua "Giornata Missionaria Mondiale", prega, cioè, medita, agisce perché le parole di vita del Cristo giungano a tutti gli uomini e siano da essi accolte come messaggio di speranza, di salvezza, di liberazione totale.

6. Ringrazio tutti i presenti che hanno voluto partecipare a questa solenne inaugurazione del ministero del nuovo Successore di Pietro.
Ringrazio di cuore i Capi di Stato, i Rappresentanti delle Autorità, le Delegazioni di Governi per la loro presenza che mi onora tanto.
Grazie a voi, Eminentissimi Cardinali della Santa Chiesa Romana!
Vi ringrazio, diletti Fratelli nell'Episcopato!
Grazie a voi, Sacerdoti!
A voi Sorelle e Fratelli, Religiose e Religiosi degli Ordini e delle Congregazioni! Grazie!
Grazie a voi, Romani!
Grazie ai pellegrini convenuti da tutto il mondo!
Grazie a quanti sono collegati a questo Sacro Rito attraverso la Radio e la Televisione!
Apro il cuore a tutti i Fratelli delle Chiese e delle Comunità Cristiane, salutando, in particolare, voi che qui siete presenti, nell'attesa del prossimo incontro personale; ma fin d'ora vi esprimo sincero apprezzamento per aver voluto assistere a questo solenne rito.
E ancora mi rivolgo a tutti gli uomini, ad ogni uomo (e con quale venerazione l'apostolo di Cristo deve pronunciare questa parola: uomo!).
Pregate per me!
Aiutatemi perché io vi possa servire! Amen.

C'era una volta: Cortina

                                                      Cortina e dintorni

sabato 22 ottobre 2011

venerdì 21 ottobre 2011

La prima festa



(ANSA) - CITTA' DEL VATICANO, 21 OTT - Ricorre domani la prima festa del beato Giovanni Paolo II, dopo la beatificazione avvenuta il 1/o maggio scorso. A Roma, alle 17.00, i giovani si ritroveranno davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano per una veglia di preghiera, al termine della quale il cardinale vicario Agostino Vallini presiedera' la prima messa in onore del nuovo beato. Il card. Angelo Comastri inaugurera' al santuario del Divino Amore il mosaico di papa Wojtyla a ricordo della prima visita.

Ladinia (prima parte)

 

Lo Sci Club Karol Wojtyla è particolarmente legato alla Val di Fassa non soltanto per motivi anagrafici (essendo stato fondato a Pozza nel 2007), ma anche per ragioni di simpatia verso la popolazione e la cultura locale.

La stessa simpatia è rivolta alle altre 4 valli (Badia, Gardena, Cordevole e Ampezzo) che insieme alla Val di Fassa costituiscono quella regione linguistica denominata Ladinia.

E' nostra intenzione raccontare la vicenda storica di questa terra che, seppur non riconosciuta sotto il profilo amministrativo, ha rappresentato, nel corso dei secoli, una realtà di straordinaria fierezza.





                                                        la bandiera della Ladinia
                                                

Nella caverna delle Conturines nel Fanes, a 2800 metri d'altezza, sono stati trovati numerose ossa di orso. L'età è compresa tra i 100.000 e i 40.000 anni. Gli orsi erano erbivori; a quei tempi dunque i pendii delle Conturines, oggi una fascia detritica, erano prati.

L'insediamento delle valli ladine ha avuto inizio circa 9000 anni fa. A quei tempi i prati sotto il Pütia venivano frequentati da cacciatori e raccoglitori di frutti.
Nel 1987 sul Mondeval de Sora (2150 m) è stato ritrovato lo scheletro di un capo della tribù con parecchi doni funerali, vissuto circa 8000 anni fa.
Dal 1700 a.C. circa ci sono diversi insediamenti permanenti come Sotciastel (Badia) oppure Plan de Crepei (Fascia).

I Reti

Le popolazioni che abitano l'arco alpino nei secoli prima della conquista romana vengono generalmente denominati "Reti". Dal V secolo a.C. in poi essi sviluppano una cultura considerevole. Sulla provenienza dei Reti e sulla loro lingua non sappiamo quasi niente. Usano l'alfabeto etrusco e si distinguono dalle popolazioni che vivono più a nord.

Romanizzazione

Nel 15 a.C. le Alpi vengono conquistate dai Romani. La popolazione adotterà la lingua latina che, influenzata dalla propria lingua, si evolverà al ladino (retoromanzo).

Spesso è stata avanzata l'ipotesi che i Romani non avessero colonizzato le valli laterali e si avessero limitato la loro presenza alle valli principali, cioé dei grandi collegamenti (p.e. Pusteria e Val d'Isarco); l'insediamento permanente delle valli ladine avrebbe dunque iniziato più tardi, i Ladini si sarebbero ritirati nella Ladinia di oggi soltanto nel periodo della riduzione del loro territorio. Vari ritrovamenti archeologici nelle valli ladine (come p.e. nella zona di Longiarü, dunque una valle laterale della Val Badia) dimostrano che le valli erano indubbiamente abitate permanentemente già ai tempi dei Romani. Inoltre la parcellizzazione dei terreni porta i segni del lavoro dei geometri romani.


Cristianizzazione

Le Alpi, che in quei tempi parlano una specie di protoladino, vengono cristianizzate da Aquileia. Molte usanze e credenze pagane sapientemente non vengono abolite, ma, subita una metamorfosi cristianeggiante, continuano in parte a sussistere fino ad oggi. Le chiese vengono costruite in gran parte negli antichi luoghi di culto.


Migrazioni

A causa delle penetrazioni dei Baiuvari e degli Alemanni da nord e dei Longobardi da sud nonché degli Slavi dall'Est il territorio ladino (che va dal Gottardo e dal lago di Costanza fino all'Adria) viene ridotto e diviso in tre aree linguistiche diverse e distinte. Nei secoli seguenti queste aree verranno ulteriormente ridimensionate.
600 ca. I Baiuvari conquistano Bolzano.
800 ca. l'Alta Val d'Isarco e la zona di Bolzano sono ancora bilingui. Tracce di popolazioni ladine ci sono ancora a Regensburg, Monaco e Salisburgo.
Intorno all'anno 1000 l'intero Canton dei Grigioni è ancora romancio. Moltissimi toponimi della Svizzera dell'Est poi germanizzata sono testimoni del patrimonio culturale romancio. Intorno al 1200 ca. due terzi del Sudtirolo odierno parlano il tedesco. Il ladino si parla non solo nelle valli ladine di oggi, ma anche a Funes, Castelrotto (ladino Ciastel), Fié, Tires, Ora e nella Val Venosta.

L'epoca dei Longobardi lascia tracce importanti nella civiltà: Pascoli e boschi sono proprietà comune delle famiglie. Nella Carnia la proprietà comune è stata abolita soltanto in tempi assai recenti, in Anpezo la proprietà comune in parte è rimasta fino ad oggi ("Regoles"). In Val Badia la proprietà comune ("de vijinanza") è stata abolita pochi anni fa. 


Medioevo


Nel 1027 il vescovo di Bressanone diventa principe-vescovo e ottiene il potere temporale. La Ladinia, con l'eccezione di Anpezo, fa parte del Tirolo. La destra orografica della Val Badia è sottomessa al Convento delle Benedittine di Castel Badia, che dà pur il nome alla valle. 

Lingua

I Ladini delle Dolomiti non ottengono alcuna possibilità di sviluppare strutture comuni; i centri amministrativi sono fuori dalle valli, l'amministrazione viene svolta in tedesco. Vengono tedeschizzati anche i toponimi ladini. La classe dirigente tedesca considera la propria lingua come più pregevole.
Il nome del Tirolo deriva dal ladino "teriol/troi" (sentiero), dal castello presso il sentiero. 

Anpezo: Repubblica sociale

Anpezo e il Cadore fanno parte del Patriarcato di Aquileia e godono di un'ampia autonomia amministrativa (statuti). Con la fine del Patriarcato (1420) Anpezo diventa territorio veneziano, nel 1511 viene conquistata dall'imperatore Massimiliano. Da ora in poi per secoli farà parte del Tirolo. Anpezo finanzia i lavori pubblici e le tasse governative con la vendita del legname. Possiede un granaio comune: Il grano viene acquistato all'ingrosso e venduto ai cittadini al prezzo d'acquisto.


Controriforma

Nel 1607 nel corso dei movimenti riformisti cattolici viene fondato il seminario a Bressanone con l'obiettivo di sottrarre all'influsso luterano le terre tedesche. Le valli ladine otterranno finalmente più parroci che parlano la lingua ladina. Diverse volte i paesi ladini avevano chiesto al vescovo preti che parlassero la loro lingua. 

fonte: www.vejin.com

lunedì 17 ottobre 2011

C'era una volta: Moena

Pederiva: il maestro del post-impressionismo dolomitano



Luigi Pederiva è nato a Soraga di Fassa nel 1915 ove risiede e lavora. Ha frequentato i corsi di arte figurativa all'Istituto d'Arte di Pozza di Fassa. Con le sue opere ci accompagna nel fantastico paesaggio della montagna, ricca di infinite sorprendenti manifestazioni di luce e di colore. Con una pennellata robusta ed incisiva l'artista riesce ad infondere nei suoi quadri le grandiose superbe visioni della natura.

"Di rado può accadervi d'incontrarvi con un vero montanaro che sia anche un vero artista. Ho conosciuto Alfredo Paluselli, chiamato l'« Orso delle nevi », un filosofo a modo suo, un'introverso, un misantropo, che, giustamente considerava l'umanità allo stesso livello, ed era un grande artista disegnatore, pittore, poeta. Ma un'altro incontro ho fatto! Ho conosciuto un vero montanaro delle Dolomiti, vero e valido pittore, amante delle sublimi vette dolomitiche che con le loro alte cime sembrano sfidare il cielo, di questi luoghi meravigliosi, con i suoi maestosi e misteriosi boschi silenti, eppur mormoranti una dolce poesia, il nostro pittore li sa ritrarre con grazia e poetica espressione, con colori che solo questi bravi montanari conoscono. Siano anche angoli di sperduti villaggi, case distrutte, o mormoranti ruscelli, il Pederiva sa esprimere con il colore, e il pennello, con mano esperta, un dialogo fra la Natura e il povero piccolo uomo, che poi noi, tutti siamo. Per definirlo come artista, dobbiamo dire che è un vero post impressionista, che sa cogliere i momenti fuggenti della vita naturistica, e fissarli sulla tela come un caro ricordo di una vita che sfugge alla realtà, quale attimo fuggente che è solo realtà nella frazione di un secondo che giunge e svanisce nel ricordo. Pederiva, come tutti i bravi artisti, lasciano ai posteri un dolce ricordo di una Natura non ancora contaminata, o addirittura distrutta da quell'uomo, che è stato creato per creare e non distruggere, in nome di un falso progresso! ".

Michele Calabrò






 

venerdì 14 ottobre 2011

Tempo di castagne


Frutto tipicamente autunnale, la castagna prende il suo nome da quello di un’antica città della Tessaglia, regione settentrionale della Grecia, che sorgeva al centro di estesi castagneti. Senofonte, nel IV secolo a.C. definì il castagno come albero del pane. In seguito Marziale, nel primo secolo a.C., e poi Virgilio descrissero il consumo e la coltivazione delle castagne.

In passato le castagne erano considerate un dono preziosissimo della natura perché potevano sfamare negli inverni più rigidi, si conservavano a lungo, si prestavano a moltissime ricette e addirittura venivano usate come moneta di scambio. I boschi venivano tenuti puliti proprio in attesa della loro caduta, e la raccolta era uno dei momenti più vivaci e allegri delle comunità montane .






Il modo migliore per consumarle è come portata principale del pasto. Sono ottime sia bollite con l’aggiunta di cannella e zenzero, oppure di qualche erba aromatica, sia saltate sulla fiamma (le caldarroste). Possono essere accompagnate da verdure crude e cotte di stagione, mentre è meglio evitare altri carboidrati nello stesso pasto, come il pane o un cereale cotto.

Le loro proprietà nutrizionali sono eccezionali: ricche di sali minerali, oligoelementi e vitamine; i loro zuccheri complessi (i carboidrati) sono più digeribili di quelli dei cereali; sono energetiche, combattono le affezioni epatobiliari e intestinali, le malattie renali, le affezioni alle ossa, le alterazioni nervose e muscolari; sono antisettiche e aiutano il sistema circolatorio.

fonte: Nadia e Giacomo Bo,  http://www.ricerchedivita.it/



lunedì 10 ottobre 2011

Andrea Zanzotto: il poeta che parla alle montagne


Ricorre oggi, 10 ottobre, il novantesimo compleanno di Andrea Zanzotto, il poeta che ha trascorso la sua lunga vita tra Pasubio, Grappa e Montello,  le montagne sacre della Prima guerra mondiale
Per festeggiare l'evento pubblichiamo due interviste apparse su Repubblica e il Corriere della Sera (rispettivamente nel 2009 e nel 2011) e un articolo pubblicato oggi sul quotidiano milanese.


Zanzotto, mi racconti le sue giornate, le sue abitudini di lavoro e di svago.
"La mia giornata, adesso, è grigia. Dico grigia, non brutta. Gli anni vanno avanti per conto loro senza che noi facciamo nulla per farli aumentare di numero. Se non hai tra le mani un quotidiano, ti è difficile capire ogni mattina come si chiami il giorno che è appena passato: sarà stato un lunedì, un venerdì? Oggi, per esempio è martedì: lo ricostruisco dal fatto che ieri è venuto qui il mio terapista. Si trova qui il lunedì e il giovedì per meno di un'ora. A scandire il tempo mi servono anche quelle specie di 'arrampicate di riabilitazione' che faccio sotto la sua guida".

Come scrive le poesie e le altre cose: a mano, a macchina?
"Da quando sono caduto rompendomi il femore ho sentito che il mio essere diventava fragile, come se mi si fosse posata addosso una nuvola di piccole paure. La riabilitazione in parte mi aiuta. Ma ogni volta che poso il piede a terra temo di sbagliare. Sia pure a fatica sono riuscito a riconquistare la scrittura a mano: mi serve per firmare le copie dei miei libri e per fare le dediche. Per il resto, detto le mie parole ad amici che le versano nel computer. Certe poesie da me scritte a mano non sono del tutto chiare a me per primo. Una signora mi ha aiutato a mettere insieme un volume che uscirà da Mondadori il 10 di ottobre, giorno del mio compleanno".

Le capita di incontrare qualche amico?
"Ce n'è uno che vedo abbastanza spesso. È Luciano Cecchinel, poeta in italiano e in dialetto. Come me". 

Le piace esprimersi nella parlata di queste Prealpi? 'Io parlo in questa lingua che passerà', ha scritto sotto il titolo 'Caso vocativo'. Si riferiva al vernacolo o all'italiano?
"Alludevo alla lingua in sé. Non c'è nessuna lingua che resista. Vengono tutte travolte. Mi accorgo, specie quando scrivo, che certe mie parole dialettali - di qua, di Soligo - non vengono più capite dagli stessi abitanti. Il mio dialetto risulta indecifrabile. Il fenomeno è reciproco: quando parlano i giovani mi pare di non capirli. Le parole indicano dei gesti, e i loro gesti non sono i miei". 

Per fare poesia è indispensabile essere infelice?
"Assolutamente no. La poesia è una via di recupero anche per il dolore. Per me nasce dalla gioia che si prova contemplando la natura. Proprio per quello sono rimasto qui in campagna. Guardare i profili delle Prealpi è un motivo d'incanto e di ispirazione, se posso usare questa parola senza che nessuno si offenda. Il paesaggio fornisce suggerimenti freschi. Sempre. Io mi diletto perfino a decifrare i messaggi immobili che trasmettono le montagne. Il loro alfabeto". 

I messaggi alpini: me ne confida qualcuno?
"Sulle alture bellunesi che si vedono da casa mia mi sembra di scorgere delle iniziali. Vi contemplo una sequenza di M e di N maiuscole. La leggo così: MAI MANCANTE NEVE DI METÀ MAGGIO. Per me, il ritorno della neve in piena primavera è un appuntamento sgradito ma in qualche modo affascinante. In Germania questo riapparire della neve lo chiamano 'I santi di ghiaccio'. Noi qui gli diamo un altro nome: la 'settimana nespolèra'. Fa cadere dagli alberi i fiori di nespolo. Vede come paesaggio e messaggio possono sovrapporsi dando insieme una sensazione di disagio e di gioia".

Nel libro che lei ha lei scritto con Marzio Breda si citano a un certo punto cinque poeti che nel 1950 le conferirono il premio San Babila di poesia: Ungaretti, Montale, Quasimodo, Sinisgalli e Sereni. Con chi, fra loro, è entrato in confidenza? 
"Più o meno con tutti. Con Sereni parlavamo soprattutto degli scrittori giovani che stavano spuntando in Italia e che lui sponsorizzava. Mi ha legato a Montale una grande devozione da quando, nel 1951, dedicò sul 'Corriere della sera' un breve articolo a 'Dietro il paesaggio', il mio primo libro. Poi recensì 'La Beltà'. Era il 1968. Con Montale era però praticamente proibito parlare di poesia. Mi intrattenevo, con lui, sulle novità della scienza. Lo trovavo molto ferrato".

Lei è uno studioso di astronomia, di fisica, di psicanalisi.
"Un dilettante. Quel tanto che può servire a parlarne fra amici colti. Tornando a Montale, ricordo che una volta gli portai, su incarico dell'autore, il grosso libro del mio amico Michel David sulla psicanalisi nella cultura italiana. Gli domandai dopo qualche tempo che cosa ne pensasse. Mi rispose: come si fa a leggere seicento pagine in due ore? Evidentemente non voleva dedicargli di più".

Le piaceva conversare con Montale?
"Certo. Ma era meglio parlargli da solo a solo, non in presenza della sua domestica, la Gina".

Come tutti sanno, Montale fondò una nobile istituzione, quella delle badanti.
"Sì, in un certo senso la Gina è stata una capostipite. Purtroppo metteva bocca. Una volta, discutendo con Montale di filosofia, mi capitò di pronunciare la parola greca 'entelèkeia', che equivale ad anima o psiche. La Gina mi domandò: è dialetto veneto?".


Lei ha detto una volta di aver pensato di trasferirsi a Milano. Perché? 
 "Quando ero giovane c'erano tanti che andavano a vivere a Milano. Io ci capitai nel '45 insieme con un gruppo di partigiani, su un camion. La guerra era appena finita, i ponti erano in briciole. Lo scultore Carlo Conte, che era suo amico, mi condusse dal poeta Alfonso Gatto. Viveva in un porto di mare. Chi andava a trovarlo finiva per dormire a casa sua, talvolta a lungo. È stata la visita della mia esistenza. Gatto mi disse: 'Avrai certo con te un campione delle tue poesie'. Ce l'avevo in tasca, le poesie. Le lesse la sera stessa".

Gli piacquero?
"'Già adesso', mi disse, 'dài dei bei segni'".

Lei, Zanzotto, amerebbe viaggiare?
"Ho sempre desiderato farlo. Ma ben presto mi capitarono dei fenomeni nervosi. Soprattutto l'insonnia, la compagna della mia vita. Montale mi suggerì il sonnifero che usava lui, il Mandrax. Ottimo. A forza di Mandrax e di tanti suoi successori, l'insonnia l'ho un po' domata".

In un articolo, il nostro Enzo Golino l'ha definita un 'mite nevrotico'.
"Tutti e due gli aggettivi mi stanno bene. Vorrei solo essere un po' più solido fisicamente. A costo di apparire meno mite". 


Sarebbe benefica, a suo parere, una messa in mora del mito del progresso, se non addirittura l'inizio di una 'decrescita' come suggerisce ad esempio l'economista e l'antropologo francese Serge Latouche?
"Di Latouche sono un ammiratore fanatico. E non mi considero, in questo senso, un isolato. In queste mie zone, quando meno te lo aspetti, trovi persone che confidano nel contenimento del falso progresso. Godono di antichi piaceri. Resistono all'onda consumistica. Continuano a fare gli agricoltori come sempre. Non si autopromuovono. Non praticano né diffondono anticrittogamici. Detestano gli elicotteri che bombardano veleni sulle viti. Sono pochi ma ci sono, che Dio li salvi".

Torniamo ancora alla poesia. Ha detto che le offre un sollievo dalle 'turbe fisiche e psichiche'. In che cosa consiste quest'azione?
"Montale, sempre lui, scorgeva nei miei versi delle risonanze terapeutiche. Sta di fatto che quando scrivo mi sento meglio. Anche adesso che sto per scrivere quello che potrebbe essere il mio ultimo libro".

Ha già un titolo?
"Inseguo delle ipotesi. Si potrebbe chiamare, per esempio, 'Erratici'. I massi erratici sono dei blocchi ciclopici di roccia trasportati dai ghiacciai".

La critica - penso soprattutto all'ampia prefazione di Ferdinando Bandini alle sue 'Poesie e prose scelte' che sono apparse nei Meridiani della Mondadori - parla di un suo 'leopardismo di fondo'. Condivide?
"Mi convince soprattutto la scoperta, fatta da Leopardi, della presenza del male nella natura".

A leggerla e ancora di più a conoscerla, si resta colpiti dalla sua passione per la musica. "Quello con la musica è un rapporto che intrattengo da sempre. È come una porta aperta sull'infinito. A pochi passi da Pieve di Soligo, in una frazione che si chiama Barbisano, si era ritirata Toti Dal Monte, il famoso soprano. Sul suo esempio tutti canterellavano, allora, pezzi d'opera. Tutti, perfino i preti. Era una specie di compagnia cantante. Nel palazzo della Dal Monte, in mezzo al bosco, si davano convegno anche i partigiani. Io ero un ragazzo, e ricordo le case piene di dischi".

Lei ha avuto un'educazione religiosa?
"In qualche modo sì. Mi capita di tanto in tanto di recitare la preghiera della notte, in latino. 'Angele Dei, qui custos es mei'".

Qui intorno, tutto parla della Grande Guerra. I nomi dei paesi ne portano incisa la storia: Sernaglia della Battaglia, Moriago della Battaglia. "Ancora adesso capita che nelle zone vicine al Piave e sul Montello si trovino resti umani".

Le accade, Zanzotto, di pensare alla fine di tutto. Come, per dirlo nel suo dialetto, quei 'veci che speta la morte'?

"Non saprei. A volte mi colpisce un'immagine. È come qualcosa che si fa visibile in un alone grigio-giallo. Il grigio è il colore dell'inverno. Il giallo è la primavera. L'accostamento fra i due colori è la confusione. È un misto che la dice lunga su questi nostri tempi. I tempi del disordine"..

Nello Ajello, Il poeta che parla alle montagne,  L'Espresso, 13 aprile 2009



Sorprende trovare Andrea Zanzotto seduto al tavolo della cucina con un pennello in mano e un foglio colorato ad acquerello. Ha un sorriso degli occhi, dolce e stanco. Per raggiungere il divano, a piccoli passi, deve farsi aiutare da suo figlio Fabio, che abita qui con lui, nella vecchia casa di Pieve di Soligo, a Nord di Treviso, il paese in cui il maggior poeta italiano della generazione post-Montale è nato nel 1921 e da cui si è allontanato solo per brevi periodi. Ci sono ricordi che allontanano la tristezza e altri che la rendono più aspra. «Dipende anche dal tempo atmosferico. Per esempio, oggi c'è un bel sole... e ricordare è più piacere che dolore. Ci sono stati periodi terribili, ma la memoria volentieri ti porta a momenti non dirò belli ma almeno sopportabili».
Non è sopportabile il ricordo di papà Giovanni, decoratore e pittore il cui nome è diventato una via di Pieve, socialista e cattolico, costretto ad allontanarsi per le continue minacce squadriste dopo aver lodato pubblicamente Matteotti: «I miei genitori hanno patito a lungo, perché mio padre era perseguitato politico, qui gli negavano l'impiego e dovette trascorrere lunghi periodi in Francia.

Poi trovò lavoro a Santo Stefano di Cadore, grazie a una tradizione di libertà che non teneva conto dei divieti. Papà affrontava i nemici, ma aveva una moglie malata e cinque figli». Il ricordo più fastidioso, oltre all'allergia e all'asma rivelatesi prestissimo, è vicino a quegli anni: «Non aver potuto prender parte con maggiore peso alla resistenza locale». Zanzotto partecipò alla stesura di manifesti e fogli informativi della resistenza e nell'agosto del '44 dovette rifugiarsi in montagna mentre Pieve bruciava. Tra i ricordi non sopportabili c'è anche il dolore e la solitudine di mamma Carmela: «È sempre stata occupata da eventi luttuosi». Tra i ricordi insopportabili ci sono i lutti precoci: la morte a sei anni della sorella Marina (gemella di Angela) nel terribile inverno del '29 e poi nel '37 la morte per tifo di Angela: «Deve esserci una vecchia fotografia con le due sorelline a Santo Stefano...». Zanzotto racconta di aver scritto un biglietto alla Madonna perché resuscitasse Marina: «Cercavo appoggio... Avere vissuto cose dolorosissime da piccolo ha influito sul resto della mia vita, rimane una traccia profonda. Io ero il primogenito e cominciai a esercitare sulle due gemelline una specie di protettorato. Un giorno ci hanno portati da certi parenti di Montebelluna per fare conoscenza, anche loro avevano due gemelle. Io avrò avuto 3 o 4 anni e mi esortarono a lodare le due bambine degli ospiti, io invece dissi che erano brutte, avevano gli occhi bigi, a differenza delle mie sorelline che avevano dei begli occhi neri».

Si avvicina una signora straniera: «La pastiglia, Professore...». Zanzotto ingoia una pastiglia con mezzo bicchiere d'acqua, mentre accarezza Utto2, un gattone nero che dal divano con un salto si è spostato sulle sue gambe. «Utto viene da farabutto. Ho conservato la tradizione del gatto, da piccolo avevo dei gattini, ma morivano anche quelli... Ne ho perso uno di recente, collegato ad altri tempi. Stento anche a ricordare i particolari del passato, perché ho come dei vuoti di memoria, ma c'è un fondo cupo sull'infanzia. Con la morte delle mie sorelle restava un sottofondo triste, anche quando non avevo proprio quel pensiero lì. La poesia mi ha aiutato sempre più, l'ho sentita crescere come il corpo, diventava qualcosa di intimamente attivo, anche perché riuscii abbastanza presto a scrivere delle cose decenti». Aveva più o meno 7 anni, Zanzotto, quando cominciò a scrivere versi: «La ricerca letteraria è come una sorgente che viene avanti e si impone sopra tutto il resto, e con la famiglia non posso dire che sia stata proprio una frizione... Non sono stato un padre distratto, ma nemmeno assorbito. I miei due figli sono cresciuti bravi e indipendenti». Tra i ricordi «sopportabili» c'è, nel '50, il premio San Babila per gli inediti, 100 mila lire. In giuria Montale, Ungaretti Quasimodo. «Ho comprato una Lambretta, che costava 115 mila lire. Quando mi videro arrivare a casa, nella Cal Santa, dove c'erano tutti i vecchi, è stato un momento importante, proprio. Una mia vicina di 80 anni mi pregò di farle fare un giro in lambretta». La voce flebile di Zanzotto, che sembra masticare le lunghe pause tra una frase e l'altra, si inarca in un sorriso. «La soddisfeci».

Più che sopportabile è il ricordo di tre figure femminili dell'infanzia. La nonna paterna: «Pregavo perché potessi morire prima e non dopo la morte di lei. Sono divagazioni lugubri e comiche nello stesso tempo. Le perdite convivevano con l'affetto che la nonna mi dimostrava, e appena potevo mi rifugiavo da lei che mi accontentava in tutto». Zia Maria, che avvia il piccolo Andrea alla lettura di settimanali e giornaletti: «Aveva un estro letterario e artistico, scriveva poesiole, fumava col bocchino e siccome mamma era molto timorata e ne pensava molto male. Era impiegata da un notaio, aveva un'istruzione di scuola inferiore, la sera andava in giro per scrivere lettere e le offrivano da bere. "Signora Maria, un goto?". Purtroppo finì per prendere l'abitudine del bicchiere». Terza presenza femminile è una direttrice didattica veneziana fiera di quello scolaro fuori dalla norma: «Mi aveva preso sotto la sua protezione e mi indicava a esempio di fronte agli altri, specialmente in geografia. Il colpo mancino che annullava tutti era l'enumerazione degli Stati Uniti, che allora erano 48». 

Quel «titanismo esistenziale e cosmico» che Franco Fortini intravide subito nella poesia di Zanzotto ha sempre avuto qualcosa di religioso o di sacro: «Non ho mai avuto un distacco dalla religione infantile... Anzi, pian piano quella dimensione veniva sentita come necessaria, soprattutto per vincere i dolori della vita». E ci riusciva? «Sì». Forse anche per questo Zanzotto ha conservato l'abitudine di recitare il Requiem prima di dormire: «Un modo per rivolgere un pensiero ai miei morti». La morte è un pensiero più forte a quest'età? «In passato ho avuto parecchi momenti di angosce, però a un certo punto ci si rassegna. Diciamo che c'è un avvicinamento naturale all'idea. Ormai ho un'età in cui non c'è giornata che non porti la notizia della morte di un amico, e quindi... L'altra mattina Timoteo. Ogni giorno si può dire che qualcuno manca all'appello». All'appello mancano anche i grandi maestri del passato: Montale («quando venne a Pieve, vide mia moglie, che era preside e disse: ai miei tempi i presidi non erano così carini...»), Ungaretti («un uomo di straordinaria generosità»), Fellini, che gli chiese di scrivere per diversi suoi film, a partire da Casanova («è morto troppo presto, direi che aveva quell'ossessione della morte...»).

Utto è tornato ad accucciarsi sul divano. Sono passati tanti anni da quando nelle campagne si sentiva recitare il «filò», a cui il poeta ha dedicato un omonimo, memorabile, poemetto dialettale: «Il filò era un rito importante totalmente scomparso: nelle stalle si riunivano i contadini, e ognuno raccontava una storiella che conosceva. Era un insieme di conoscenze che sono state perdute e che invano qualcuno tenta di restaurare. Mi ricordo, non sono tanti anni, che mi meravigliavo di come potessero creare un partito rivendicando la forza del parlato dialettale senza nessuna base teorica. Per esempio, il rito di Bossi che va alle sorgenti del Piave... Si cominciava a degenerare. Sono equivoci storici. Per esempio, tutto il periodo del Medioevo avanzato in cui cresceva la nuova lingua italiana insieme con i vari dialetti non è stato capito. Ho scritto in dialetto molto presto, ma ho criticato la Lega perché non conosceva la realtà complessa dei dialetti, come nascano, fioriscano e sfioriscano».

Si sa, per Zanzotto è angoscioso anche il mutamento radicale del suo paesaggio. Angoscia e rabbia fotografate nel titolo di un magnifico libro-conversazione con Marzio Breda, In questo progresso scorsoio, uscito un paio d'anni fa da Garzanti. «Il paesaggio qua era qualcosa di compatto, quella stradina che si partiva dalle vicinanze della chiesa e andava al cimitero era un luogo molto rispettato... Mio padre, come pittore, ha decorato di immagini sacre quel porticato. Ora è un disastro, c'è stato uno snaturamento, hanno dato perfino il benestare a creare un deposito di gas che proviene dalla Russia». Marisa, sua moglie, si agita, va e viene, non sta nella pelle: «Parlano delle cattiverie di Zanzotto, perché ha difeso l'unico pezzo verde nell'ansa del Soligo. Andrea dovrebbe pubblicare gli insulti che ha ricevuto dal suo paese». Zanzotto alza gli occhi al cielo: «È diventato tutto incontrollabile, d'altra parte se si pensa agli allagamenti recenti in Veneto... che spavento, proprio!». Espressione di ribrezzo. «Pieve ormai è una piccola Los Angeles. Ci sono limiti realmente invalicabili, ma finché uno non è dentro il caos non se ne rende conto. Il rinsavimento, se avverrà, sarà formato di singulti. D'altra parte, l'altra sera in Tv parlavano degli antichi Maja che prevedevano nel 2012 la fine del mondo: se è così, vale la pena accettare quel che succede». Dall'ultima lunga pausa, sgorga un motivetto allegro, quasi cantato come una filastrocca infantile: «Comunque, se oggi seren non è doman seren sarà, se non sarà seren si rasserenerà».


Corriere della Sera, 28 marzo 2011



Andrea Zanzotto compie novant’anni. Autore celebre, quasi nume tutelare e personificazione della poesia in un tempo che ne ha estremo bisogno (ma non lo riconosce), Zanzotto è probabilmente più citato che letto. La sua opera è complessa, a volte ardua; abbiamo provato a indicare dieci parole che possono aiutare ad avvicinarsi all’uomo e alla sua poesia, non tanto come chiavi di comprensione ma come sentieri che tentano la via di un fittissimo bosco. 


BOSCO Indica non solo la condizione selvaggia della natura, ma anche una serie di simboli legati a essa: il sogno di un mondo naturale che si autoregola in armonia con gli uomini; il labirinto della lingua e degli stili nel quale il poeta tenta di orientarsi. Bosco per antonomasia è quello della raccolta Il Galateo in Bosco (1978): è il Bosco del Montello, luogo magico e dal «respiro preistorico», dove si trovano mescolati i segni della geologia e della violenta storia umana, dai massacri della Prima guerra mondiale ai danni della speculazione edilizia. 


CULTURA Vastissima e aperta a ogni disciplina: letteratura, linguistica, scienza, psicanalisi. Gli interessi di Zanzotto vanno dalla «mitologia» locale (gli aneddoti sul contadino e «profeta» Nino Mura) ai più recenti dibattiti scientifici. Di notizie scientifiche si nutre la sua poesia, che è ricca di termini derivati dai vari campi del sapere (spesso dalla medicina). Ma le ampie conoscenze rendono originali anche i saggi di Zanzotto, dedicati agli scrittori più amati, al cinema, alle arti, alla musica, ai luoghi del cuore. 


INSONNIA Un disturbo col quale Zanzotto ha lottato per decenni (nella poesia «Subnarcosi» parla del «mio sonno / che mai ritornerà»). L’insonnia gli ha forse anche aperto esperienze poetiche nuove, portandolo, come uno sciamano del nostro tempo, a sondare territori psichici lontani, dove pochi altri autori si sono spinti. L’insonnia si lega anche all’ipocondria zanzottiana: le «fisime» o fissazioni sulle possibili malattie derivano anche da una sensibilità particolarmente attenta ad auscultare il misterioso brusio del corpo. 


ISOLAMENTO Salvo brevi periodi in Svizzera e rari viaggi, Zanzotto ha sempre vissuto a Pieve di Soligo, dove è nato. Una scelta di vita e di poetica: il radicamento in quello che Comisso chiamava il «metro quadrato» comporta per Zanzotto vertiginosi approfondimenti e indagini sul luogo natìo, interpretato come specchio del mondo. Da Pieve si sposta raramente e malvolentieri, anche se deve ricevere premi, ai quali talvolta, per questa ragione, rinuncia. Secondo alcuni vive quasi da eremita, ma lui sostiene, con Montale, che «solo gli isolati comunicano» (e del resto l’isolamento non gli ha impedito di dialogare intensamente con altri scrittori e intellettuali). Diverso l’atteggiamento all’inizio della carriera quando si recava spesso a Milano per farsi conoscere e intrecciare relazioni letterarie.


NOTIZIE «(...) fermo, inpetolà ‘nte i versi», Zanzotto non ha escluso il mondo ma ha fatto in modo che il mondo arrivasse, attraverso le notizie, a Pieve di Soligo. Informandosi tramite i più disparati organi di stampa, a partire dall’immancabile giornale locale «miniera di fatterelli» (e oggi monitorando costantemente Rai News 24), Zanzotto ha introdotto nella sua opera moltissimi elementi di attualità - dall’inquinamento alla droga agli «afterhours» a «google» - che hanno «contaminato» la sua poesia, che agli esordi poteva anche essere letta come lirica pura e astratta. 


PAESAGGIO La parola-chiave fin dalla prima raccolta «Dietro il paesaggio». Fondamentali i paesaggi dipinti dal padre pittore che il piccolo Zanzotto contemplava in casa. Nel proprio paesaggio, secondo il poeta, ogni individuo riconosce se stesso e si orienta nel mondo, fisicamente e mentalmente. Il paesaggio è fonte di emozione poetica e garanzia di equilibrio e di ritrovamento di senso. E’ questo il motivo per cui ogni mutazione, ogni scempio arrecato al paesaggio è ritenuto da Zanzotto destabilizzante per la psiche degli individui e per le comunità. Da qui deriva, fin dagli anni ’60, la necessità per il poeta di battersi per l’integrità dei paesaggi specialmente veneti, resi ormai marginali dalla cementificazione. 


PEDAGOGIA A lungo Zanzotto ha insegnato nelle scuole medie. Dell’insegnamento ha sperimentato l’entusiasmo e la frustrazione, «tra una depressa quotidianità e crucci di teoresi e di ricerca». Si è interessato a lungo dei problemi dell’apprendimento, e della creatività infantile anche in rapporto alle risorse dell’invenzione poetica. Si è interrogato sui rischi della pedagogia, che può trasformarsi in imposizione e rendere «i cervelli un po’ troppo rigidi», ma ha sempre ritenuto centrale il problema della scuola «perché il bambino è la società futura». «Pedagogia» è il titolo di un suo memorabile scritto su Pasolini. 


PETÈL Indica in solighese la lingua giocosa e vezzeggiativa che le madri usano coi bambini. Per Zanzotto è la forma basilare della comunicazione linguistica: un balbettìo dialettale che richiama l’infanzia e al quale è dolce ritornare, lasciandone talvolta affiorare tracce nelle poesie. Tuttavia il «petèl», con le lusinghe di un ritorno alla dimensione rassicurante dell’infanzia, rappresenta un rischio se, per cercarvi protezione, si rinuncia alla difficile ricerca della lingua poetica adatta al presente traumatico e disorientante.

TEMPO Negli ultimi anni il tempo è diventato per Zanzotto un «usuraio atroce» che lo deruba dell’esistenza. Ma in tutta la poesia del solighese il tempo è oggetto, implicitamente o esplicitamente, di riflessione: al microtempo della storia umana Zanzotto affianca spesso il concetto traumatico di «megatempo», che ridimensiona l’uomo e lo fa sentire una presenza irrisoria dentro ai «miliardi di anni» di cui parlano la geologia e la paleontologia. 


TRADIZIONE Significa il legame con il luogo, con la comunità e la famiglia, che si esprime attraverso il dialetto, gli oggetti e i mestieri che rappresentano una civiltà. Tutto è stato spazzato via troppo in fretta, secondo Zanzotto, a partire dagli anni ’60, col boom economico. La forma a volte convulsa della sua poesia rispecchia anche questo enorme trauma subìto dall’Italia e dal Veneto. Recuperi recenti, più o meno pretestuosi, di una tradizione ormai distrutta o museificata sono per Zanzotto da ascrivere alla categoria del «kitsch», cioè del falso di cattivo gusto. 

Matteo Giancotti, Corriere della Sera, 10 ottobre 2011