Dopo
tanta retorica da centenario, ammainate tutte le bandiere, per favore:
arriva Ermanno Olmi, il narratore di molti mondi, tra cui il nostro, a
raccontarci cosa fu la Grande Guerra, attraverso quella piccolissima, e
dolorosa, di due soldati senza nome, un ufficiale e un fante, incastrati
dalla Storia e dalla neve in una trincea a 1800 metri di altezza, sopra
Asiago, nella notte di plenilunio dell’autunno 1917. Sognando una buona
vita a un millimetro dalla morte. E di sicuro una minestra calda.
Olmi
esce dal buio della sala di montaggio con gli occhi lucidi e un
sorriso. Gli piace lavorare, ma anche lo sfinisce. Ha 83 anni. Si siede.
Beve un caffè. Porta notizie dal suo nuovo film, Torneranno i prati,
come uscisse dagli scavi di una memoria che risale a quando era bambino,
nella piccola Italia degli Anni Trenta, casetta con giardino alla
Bovisa, tra le ciminiere di Milano, quando suo padre ferroviere gli
faceva certi racconti pieni di freddo e di spavento, narrandogli dei
prati lungo il fronte orientale, sugli altopiani, incisi dal sangue e
dalle trincee della guerra.
Oggi,
declinando nel titolo quei prati al futuro, Olmi ha scelto di
tramandarci un po’ di speranza: “Mi piacerebbe aver fatto un film bello,
ma soprattutto utile. Ne abbiamo bisogno”. Dice: “C’è un cinema per
sognare e un cinema per capire. A me interessa il secondo”.
La
storia del film coincide con quella dei protagonisti, un’ora e mezza:
“Un tempo dell’anima, non quello degli orologi”, in cui i due giovani
uomini si parlano di cose da nulla, “ma in quel nulla c’è il mondo”.
Scende la neve, morde la stanchezza, sale la paura. Poi la neve smette e
ci sono le stelle: luci di incommensurabile lontananza, eppure
vicinissime. “Proprio come le trincee dell’altro mondo, quello dei
nemici, che talvolta correvano a non più di dieci metri di distanza”, e
che possono contenere la fucilata del cecchino che ti uccide, oppure una
pausa di vita.
Perché
da un avamposto all’altro, magari senza vedersi, ci si parlava “con la
lingua dei poveri, che è lingua universale” per concordare una tregua,
raccogliere i feriti agonizzanti, oppure fare un po’ di legna. Un
bombardamento scompagina il paesaggio e la storia. Un colpo di scena la
conclude, perché “ci sarà una sorpresa nel volto del nemico”. Per
scoprire cosa? “Che in tutte le guerre il vero nemico siamo noi stessi,
la nostra ostinata stupidità”.
Gli
storici – che di quella guerra hanno narrato le infinite ragioni, gli
infinti torti, le sofisticate spiegazioni - non sarebbero d’accordo. Ma a
Olmi non interessano le grandi architettura della storia, lui inquadra e
racconta le piccole viti che le tengono insieme, magari fino al punto
di rottura. “Ogni guerra è un crimine – dice -. E io predico la
disobbedienza come virtù civile”.
Diciassette
milioni di morti, ci furono allora, 600 mila solo in Italia. “Per lo
più contadini e analfabeti, chiamati a difendere la patria che per loro
era la terra, era l’orto, era la vita. Senza neanche immaginare che
invece morivano per la ricchezza delle casate reali, degli imperi. Per
il ferro e il carbone delle Nazioni”.
E’
dall’inizio dei suo viaggio che Olmi declina vite minime di giovani
operai, giovani fidanzati, trascurabili eroi della fatica quotidiana
come i contadini del suo capolavoro, L’albero degli zoccoli, Palma d’oro
a Cannes, anno 1978, per raccontarci la grandezza del mondo, il suo
mistero. Sempre indagato con la sua mistica di “aspirante cristiano”, e
il suo stupore: “Ho vissuto e lavorato sempre all’insegna della
sorpresa”. Dice: “Borges cercava il nome segreto di Dio nei libri. Io lo
cerco negli uomini, nelle cose fabbricate e in quelle create, come un
albero o il bosco”.
Accomodato
sul divano, cerca le parole di un rendiconto: “So che da adesso in poi
il mio futuro è anche il mio congedo”. Per questo ha voglia di parlare
del suo lavoro, il cinema, “che mi ha reso un artigiano felice”,
dell’Italia “umiliata dalla menzogna perpetua”, di quella illusione che
ci scava: “Crediamo che la felicità sia nel consumare cose. Ma il
consumo è il simulacro del piacere e quel che ci resta è solitudine”.
“Ho
girato più di cento opere, tra documentari e film, ogni volta mi sembra
di ricominciare da zero, di scoprire tutto dall’inizio. E’ una
sensazione bellissima che mi consente la massima concentrazione”.
Anche stavolta ha lavorato con molti appunti e poca sceneggiatura?
“Ho
letto molti diari di soldati, preferendoli ai grandi scrittori. Non
volevo troppe mediazioni letterarie, volevo immediatezza, stupore,
dramma e la poesia dell’essere vivi. Poi ho scritto la storia dei miei
personaggi in forma di racconto, sempre in prima persona singolare. I
dialoghi li provavo sul set. Le inquadrature anche. Ai tempi dell’Albero
degli zoccoli, mi scrivevo le battute su un foglietto che tenevo nel
cappello. Sul set provavo le battute con i contadini, ascoltavo il suono
del dialetto. Quando le battute stonavano, le cambiavo. I macchinisti
ogni tanto mi chiedevano notizie: che dice il foglietto, andiamo in
pausa?”.
E oggi?
“Oggi
lo stesso. Ma con tutti gli impacci dei miei anni. Per fortuna sul set,
in mezzo alla neve, c’era il mio amico regista Maurizio Zaccaro a
tenere le fila. Io me ne stavo un po’ più a valle, davanti a un monitor,
dentro una baracca a morire di freddo”.
Quanto le pesano gli anni?
“Rallentano tutto quello che vorrei fare. Mi nascondono le parole che ho in testa. Però mi tengono anche compagnia”.
E vero che una volta finiti non riguarda più i suoi film?
“E’
vero, non li riguardo mai, straccio gli appunti, ripulisco la
scrivania. Mi metto in cammino verso altre scoperte, mentre loro stanno
fermi e quello che avevano da raccontarmi lo so già”.
Cos’è per lei il cinema?
“E’
mostrare qualcosa della realtà che gli altri non vedono. E’ Rossellini
che gira Paisà tra la polvere del dopoguerra. E’ Fellini che sogna di
fare Otto e mezzo mentre lo fa. E’ Tonino Guerra, già molto malato, che
mi dice ho una bellissima storia da raccontarti sul nostro amico
Tarkovskij. E mentre racconta, fuori dalla finestra della sua casa di
Pennabilli, c’è la stessa neve di Amarcord”.
Le manca quel mondo?
“E’
stato una parte della mia giovinezza. Ma sono un uomo di sentimenti,
non un sentimentale, e quindi non mi manca, perché c’è sempre, sta
dentro di me”.
Il cinema di oggi le piace?
“Quello
degli effetti speciali, delle commedie insulse, no. Ma ho visto cose
bellissime come Le meraviglie di Alice Rohrwacher, certi film di Edoardo
Winspeare e poi i lungometraggi di Michelangelo Frammartino, che per me
è il più profondo. Sono sicuro che ruberò qualcosa a ognuno di loro,
una luce, una inquadratura. Certi film sono così roventi che ti lasciano
il segno”.
E l’Italia di oggi che segno le lascia?
“Inquietudine,
rabbia. Perché tutto si fonda sulla menzogna, su questo inganno che il
consumo, l’economia, il pil, riempirà il vuoto della vita. Berlusconi,
da questo punto di vista, è stato il re dei mentitori. Un avvelenatore
di pozzi. Pasolini, parlando di un regista disse: è così bugiardo che
quando sarà all’inferno, convincerà gli altri di essere in paradiso”.
E Renzi?
“Anche
lui è prigioniero di questa dannazione della comunicazione. Questo
perpetuo fare in fretta per poterlo dire in fretta e poi magari,
lentamente, non fare niente. Racconta anche lui bugie. Tutti fanno finta
di credergli per convenienza e si va avanti ancora un po’”.
Però almeno è giovane, dunque innocente del passato, o almeno così si dice.
“E’ giovane di sicuro. Speriamo solo che migliori, perché è anche l’unico”.
La accusano di essere antimoderno, inattuale, passatista.
“Se
la modernità è distruggere il pianeta che ci ospita, avvelenare quello
che mangiamo, preferisco non essere moderno. Ma non lo credo. La
modernità è pensare con occhi nuovi, non masticare idee vecchie. Il mio
amico Luciano Bianciardi, che nei suoi ultimi anni milanesi veniva a
trovarmi ogni giorno, con la sua camminata lenta, da provinciale, era
tra i pochi che non credevano ai miracoli del Miracolo economico. Tra
tanti cantori, la sua verità stonava”.
Però anche lei ha fatto spot pubblicitari, dicono i puristi.
“Ah,
sì. Me lo rimprovera sempre il mio amico Goffredo Fofi. E’ vero, lo
ammetto. Ne ho girati sei per sopravvivere in certi anni in cui i miei
film non facevano una lira. Con due caroselli campavo un anno, una
meraviglia. Poi ho smesso”.
In tanti anni di mestiere non ha mai abitato a Roma e ha lasciato Milano per l’altopiano di Asiago.
“Vivo
in mezzo alla natura e al silenzio. Ho avuto una brutta malattia.
Loredana, mia moglie, mi ha aiutato a sopravvivere. Ma lo ha fatto anche
il bosco, che è il libro della vita”.
Di questo film cosa vorrebbe che restasse?
“La
forza della vita sulla morte. La certezza che la guerra è un crimine. E
visto che siamo nel centenario, il sospetto che la retorica delle
bandiere sia fatta più per dimenticare che per ricordare”.
Pino Corrias per “il Venerdì - la Repubblica”


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