Le morti concentriche (quasi un prologo).
Sherpa e turisti. “Se non avesse avuto paura, l’umanità si sarebbe estinta già da tempo, molto prima che l’alpinismo potesse diventare una moda come manifestazione di decadenza in un mondo completamente basato sulla sicurezza”. Fine ottobre 2014, trentanove morti in un colpo solo in Nepal, dove partono i trekking dell’Annapurna. Aprile 2014, “la grande catastrofe che costò la vita a sedici Sherpa al margine superiore della seraccata turberà il clan per molto tempo. La sciagura verrà ricordata come un triste incidente sul lavoro in cui spesso muoiono giovani padri di famiglia, vittime dell’arroganza con cui i turisti salgono in vetta dal campo base sulle piste preparate dagli Sherpa”. Dopo i funerali in rito buddista di sei di loro, hanno minacciato uno sciopero. “Pasang rise con i suoi occhietti furbi: ‘Il mandriano di yak’, rispose. ‘E perché non più il portatore?’. ‘Perché è meno pericoloso che trascinare pesi sulle cascate di ghiaccio del Khumbu o zaini sulla parete sud del Lhotse’. Lo disse senza risentimento, come se la vecchiaia lo avesse reso più saggio”.
Sherpa e turisti. “Se non avesse avuto paura, l’umanità si sarebbe estinta già da tempo, molto prima che l’alpinismo potesse diventare una moda come manifestazione di decadenza in un mondo completamente basato sulla sicurezza”. Fine ottobre 2014, trentanove morti in un colpo solo in Nepal, dove partono i trekking dell’Annapurna. Aprile 2014, “la grande catastrofe che costò la vita a sedici Sherpa al margine superiore della seraccata turberà il clan per molto tempo. La sciagura verrà ricordata come un triste incidente sul lavoro in cui spesso muoiono giovani padri di famiglia, vittime dell’arroganza con cui i turisti salgono in vetta dal campo base sulle piste preparate dagli Sherpa”. Dopo i funerali in rito buddista di sei di loro, hanno minacciato uno sciopero. “Pasang rise con i suoi occhietti furbi: ‘Il mandriano di yak’, rispose. ‘E perché non più il portatore?’. ‘Perché è meno pericoloso che trascinare pesi sulle cascate di ghiaccio del Khumbu o zaini sulla parete sud del Lhotse’. Lo disse senza risentimento, come se la vecchiaia lo avesse reso più saggio”.
George Mallory. “Sono sdraiato, bocconi, pallido, cieco e
sordo, disteso sui detriti: puro essere, nessuna coscienza. Qui, dove
molti altri si romperanno ancora le gambe e l’osso del collo, al gelo e
alle intemperie, aspetto la risposta giusta”. Finalmente. “Dopo un
inverno secco e un aprile tempestoso, divento ben visibile: la schiena
bianca come il marmo, la corda lacerata intorno al corpo, i brandelli,
color pastello, dei miei vestiti tra le rocce”. Il 1° maggio 1999 una
spedizione ritrovò “un corpo bianco come la cera”. Nei 75 anni che
separano la prima dalla “seconda morte di Mallory”, l’alpinista inglese
che più di ogni altro ha legato il suo nome alla conquista dell’Everest,
il suo corpo mai ritrovato si trasformò in leggenda. La sua seconda
morte svelò il fallimento dell’impresa: il luogo e le condizioni del
ritrovamento bastano a escludere che avesse raggiunto la vetta.
Günther. “Tutti parlano dell’eroismo della morte, ma nessuno sa
com’è. E’ più facile morire sotto una slavina, in un crepaccio, che
congelare di notte a trenta gradi sotto zero. Il sonno eterno è come una
liberazione”. “Mio fratello era morto, sepolto sotto una slavina, aveva
trovato la sua liberazione. Ma io non dovevo morire. Il Nanga Parbat si
ergeva in un cielo ancora nero. In accordo con i morti, la morte mi
veniva incontro come una cosa naturale. (…) Nessuno può immaginare
quanto un uomo in lotta contro la morte si senta solo perché è l’ultimo a
giocare ancora a quel terribile gioco che si chiama alpinismo. Quando
vivi la morte come realtà, sai cosa vuol dire rinascita. Il dolore non
si può misurare. Ma per chi è sfuggito alla pazzia o alla morte, la vita
è un dono e non più una possibilità per giocare”.
“Levammo gli occhi al cielo, la testa all’indietro tanto era lo
strapiombo davanti a noi… Che le danze sulla parete verticale avessero
inizio”.
Ti viene da chiederti, con lo stupore presago con cui si guardano
certi canaloni innevati, perché un uomo che ha scalato tutti i
quattordici ottomila del pianeta, che è stato uno dei più grandi
arrampicatori in libera di sempre, il primo a salire sull’Everest senza
bombole, il primo a tornarci da solo, che ha attraversato a piedi
l’Antartide e il deserto di Gobi, giunto alla seraccata non da poco dei
settant’anni scrive un libro, La vita secondo me (Corbaccio), in cui
parla più della sua infanzia che di scalate. Meno dell’avventura che
dell’esperienza. Gli anni da bambino in Val di Funes, la prima paura nel
bosco, la struttura sociale che l’ha forgiato, la dimensione del
rischio, l’egoismo naturale e la responsabilità per gli altri come base
di ogni riuscita convivenza umana. La sua Heimat, che non è il guscio
vuoto della nostra patria. Le prime cento pagine di un libro che non è
il compendio inutile di una vita gloriosa. “Prima di attraversare il
Gobi, futuro per me era sinonimo di salita, da allora scendo, verso
casa. Senza dover accelerare il passo”.
Infanzia, Heimat. Fu sulla strada per la valle del Kali
Gandaki che un giorno incontrò un bambino. Tornava sui monti dai nonni,
ce lo rimandavano i genitori perché vi potesse crescere più libero. Sud
Tirolo, Nepal. “I bambini avevano tutte le libertà. Facevano quel che
volevano, ma ne erano anche responsabili. Lì il calore della famiglia
era più intenso che nelle società moderne. Come nelle valli altoatesine
del Dopoguerra, dove noi bambini potevamo permetterci di vivere in modo
spericolato”. E’ come studiare una parete verticale per ore e ore per
trovare una via nuova, più logica e armonica. Reinhold Messner è un uomo
che torna e ritorna sugli stessi snodi, gli stessi spigoli: “E’ sempre
più difficile trasmettere agli adolescenti il significato dei valori. Ma
se i bambini vogliono imparare come il successo, la soddisfazione e la
realizzazione di nuovi progetti si intreccino con la bellezza delle
forme, l’altezza e la profondità devono sperimentare la vita”. Brividi
d’alta quota per la nostra civiltà dei maniglioni antipanico, senza
rischio e dunque senza educazione, l’infanzia un giardino d’infanzia.
“Solo molto più tardi, in Himalaya e in Tibet, ho vissuto la cultura
della partecipazione come una cosa ovvia. Lì l’etica degli uomini è
comandata dai sentimenti, il Dalai Lama la chiama compassion”. Il
granito di cui sono fatti i muscoli e i nervi di un uomo così sono stati
forgiati dalla Heimat, nella casa in cui si mangia sempre insieme, nel
paese in cui l’autorità è naturale. E in cui da secoli il ciclo delle
stagioni e la provvidenza del Cielo sono tutt’uno con la chiesa e la
voce del parroco. Però Messner rende testimonianza anche di una cultura e
di una tradizione religiosa che si erano inaridite, senza più nesso tra
quel che era giusto e quel che si desiderava. “La domenica preferivamo
andare ad arrampicare che andare a messa”, e ha detto tutto. “Non ho
bisogno di giustificazioni sotto forma di Dio”. Io penso alle mie
montagne, dove ogni mille passi una croce o una Madonnina ricordano che
anche la Natura più selvaggia e ostile si è fatta invece graziosamente
benigna. Era così anche nel Sud Tirolo dove Messner è cresciuto, in
tempo per vedere le regole ferree, religiose e antropologiche, di un
piccolo mondo e di una grande Tradizione andare in frantumi, come oggi
si sgretolano le guglie di calcare bianco delle Dolomiti.
Fratelli. Per Messner il sentiero oscuro oltre il quale
nulla sarà come prima è stato la morte di suo fratello Günther sul Nanga
Parbat, 1970. Lui ha solo 26 anni, Günther due di meno. Ci sono vite
parallele che come certe creste esposte non si possono non attraversare.
Quanto dovette attendere Walter Bonatti finché il caso smascherasse le
bugie dei truffaldi, e gli fosse restituito l’onore da parte di una
combriccola meschina com’è la comunità degli alpinisti professionali?
Solo nel 1994 le prove fotografiche dettero ragione a Bonatti sulla
conquista italiana del K2 del 1954. Ma il Cai ce ne mise altri dieci per
rendergli giustizia. Fu solo nel 2005 che il casuale ritrovamento del
corpo di suo fratello Günther, là dove Reinhold aveva sempre detto che
era scomparso, dimostrò che i fatti del 1970 sul Nanga Parbat erano
andati esattamente come lui li aveva raccontati, e non secondo le balle
opportunistiche del capo della spedizione. Le polemiche che per
trentacinque anni furono montate su quella tragedia sono identiche a
quelle che per cinquanta avvelenarono Bonatti. Con l’aggravante del
moralismo (il sospetto dell’abbandono del fratello). “Non mi ritrovai in
un branco di lupi, ma in una bolgia di idealisti”.
Il risentimento è il punto di non ritorno che innesca un’amicizia
lenta. Si incontrarono soltanto nel 2004. Ma non è il solo. A farne “il
fratello che non sapevo di avere”, come Messner lo chiamò, è l’idem
sentire dell’alpinismo tradizionale, “di rinuncia”, dell’avventura e di
una anarchia forse in Bonatti anche più selvatica. E un senso recondito
delle proprie Heimat. Bonatti che a un certo punto della vita si prende
la donna più bella della sua generazione e la rapisce a vivere a Dubino,
oscuro villaggio in discesa dove la valle che sale verso lo Spluga e
l’Engadina si incrocia con la valle dell’Adda, tra i campi dove nessun
maso chiuso ha salvato il grano saraceno da capannoni e villette, ma
resistono le anse silenziose del fiume e si possono pescare ancora le
trote con la mosca, guardando in lontananza i Tir che salgono verso i
passi. Ma dove le rocce rosse di ferro delle nostre Retiche non hanno la
bellezza disegnata delle Dolomiti. Com’è che un uomo che è
sopravvissuto tre notti appeso al Pilone del Frêney e che ha sceso da
solo lo Yukon in canoa decide di rintanarsi lì in basso, se non per il
pensiero di un’appartenenza che è un luogo sulla terra, ostinatamente
opposto a tutti gli altri?
Infanzia. Libertà. “Era una mattina d’inverno di fine
febbraio 2013, a Monaco: ero seduto al tavolo di una panetteria davanti a
una tazza di cappuccino e stavo leggendo la Süddeutsche Zeitung quando
una giovane madre entrò nel locale con la figlia, una bambina di sette o
otto anni. Per comprare una merenda, pensai. La notte prima aveva
nevicato, e c’erano meno auto del solito: è la giornata adatta per fare
un pupazzo di neve, pensai”. La bambina aveva in mano un krapfen e le
brillavano gli occhi. “‘E’ ora di andare’, sentii dire alla madre
mentre, prendendola per mano, si diresse verso la porta. Alla richiesta
della figlia, ‘facciamo un pupazzo di neve, ti prego’, non seguì alcuna
reazione. La madre rimase in silenzio e la porta si chiuse”.
Quello stesso giorno, più tardi, a un meeting internazionale sul tema
dei nuovi media. “Durante la pausa caffè, centinaia di giovani
discutevano del futuro dell’uomo senza sprecare nemmeno un secondo a
chiedersi dove i bambini avrebbero potuto fare i loro pupazzi di neve in
quel futuro. Sembrava che dei miei interlocutori, provenienti dagli
ambienti e dai ceti più diversi, nessuno avesse mai fatto un pupazzo di
neve. A sera, durante il viaggio di ritorno in treno per la Svizzera,
ripensai ancora turbato all’incontro del mattino con la bambina. Il
mondo in cui ho fatto le mie esperienze sociali più importanti, in cui
ho sviluppato la mia autostima e in cui ho imparato soprattutto l’arte
della vita, non c’è più. Ma dove si farà esperienza in futuro?”.
Tradizione. “Sono un uomo d’avventura che va regolarmente in luoghi in cui l’uomo, quando crede di essersi civilizzato, non si trova più a suo agio”. Che però non sia soltanto questione di avventura, ma della libertà dell’uomo moderno, è autoevidente come una slavina che rotola a valle. Per Messner l’alpinismo e l’avventura estremi sono stati una via per riscrivere, o rigenerare, come si dice degli pneumatici, le “radici sociali e culturali” di una convivenza che gli paiono svanite. Anarchico, darwiniano come chi ha deciso che le regole della convivenza debbano essere le stesse che regolano la sopravvivenza, non “un selvaggio ma piuttosto un disadattato”, le sue ragioni è andato a cercarsele lontano. “Ciò che mi affascina è lo studio del sapere antico, derivato dalle esperienze che hanno plasmato gli uomini delle epoche primitive”. “Oggi l’empatia diminuisce, l’arroganza e la boria aumentano solo perché gli uomini comunicano sempre meno di persona. E il risultato finale è una società illiberale e antidemocratica. Il web ha creato nuove forme di relazione. Gli uomini sono diventati più narcisisti. Questo tipo di narcisismo, una volta appannaggio solo di nobili e potenti, con internet si è diffuso in modo velocissimo e a livello mondiale”. Snobismo, misoneismo? Certo una quota, ma non un’alta quota. Invece, quello che Messner ha elaborato passo dopo passo è un pensiero della tradizione, anti postmoderno. Come sopravvive un pensiero di natura e razionale: infanzia, famiglia, responsabilità, libertà? E’ più difficile stare in equilibrio su una lama di ghiaccio o sull’abisso che separa Tradizione e Modernità? E’ come “quando ci manca improvvisamente la terra sotto i piedi, perché cala la notte, il Pack artico si spacca”. E “no hidden path” a salvarci.
Polis, villaggio. Non è strano che la sua strada, scesa per un
attimo in pianura, si sia incontrata con quella di Alexander Langer.
Forse per via di quel “viaggiare leggero” che il suo amico prediligeva.
Dal 1999 al 2004 è stato parlamentare europeo per i Verdi, Alexander non
c’era già più. Non durò molto: “Non mi sento più a casa mia con i
Verdi. Si sono persi in una logica di sola critica e di ostacolo allo
sviluppo. Non hanno più visioni per il futuro”. Non gliel’hanno mai
perdonata, gli ambientalisti da decrescita. Ancora di recente c’è chi
l’ha sfottuto perché li accusa di essere colpevoli dello spopolamento
della montagna. Nel 2008 criticò l’istituzione dei parchi “wilderness”,
perché bisogna privilegiare il fattore umano sulla natura. “Quasi che la
natura non potesse vivere, e bene, senza l’uomo”, hanno detto. E
infatti lui non lo pensa proprio, il suo non è un pensiero utopico e
regressivo, “Into the wild” non è il suo film. “Oggi dice di essere
stato alpinista, ed essere montanaro, loda il Segantini che tiene le
cime sullo sfondo e la fatica dei montanari in primo piano, e si dedica
ai suoi musei della montagna”, ha scritto Adriano Sofri quando lo hanno
insignito dell’ordine di Ufficiale di Gran Croce.
“E’ molto diffusa l’idea che noi alpinisti – lassù – siamo
vicinissimi al cielo e quindi a Dio. Ma al di là del cielo non c’è altro
che l’incertezza”.
Un giorno che aveva cinquant’anni è caduto scavalcando il muretto di
casa, si è maciullato un calcagno e ne è rimasto zoppo per sempre. Lui
che non era caduto dalle montagne più alte del mondo. Solo chi ha
combattuto con il Dio resta sciancato all’anca, o zoppo al calcagno. Ma
sono già troppe parole, per appiccicare un simbolo a quel banale
incidente di Castel Juval. Quanto gliene possa fregare, del simbolico, a
uno come Messner, lo ha spiegato più volte lui. Pragmatico com’è, anzi
materialista, sa che tutto dipende dalla presa delle dita su una
scheggia di roccia friabile o dalla traiettoria di un sasso che
precipita. Dice solo che lì è iniziata la sua terza vita. Dopo quella
dello scalatore estremo in roccia, dopo l’alpinismo d’alta quota, la
terza vita di viandante zoppo, “pellegrino innamorato dell’orizzonte”,
che non può più compiere certe imprese. Così, sempre camminando, ha
levigato il suo pensiero, una sua filosofia che comprende l’arte, la
cultura dei popoli delle montagne, il gran progetto del Messner Mountain
Museum. La religione, anche. E’ la montagna che ha fatto nascere tutte
le religioni: non un discorso della montagna, solo discorsi che scendono
dalle montagne.
Così non si può certo sapere se del suo amico Alexander, che di lì a
poco avrebbe deciso di guardare per l’ultima volta il mondo dalla breve
altezza di un ramo sulle colline di Pian dei Giullari, abbia condiviso
quell’articolo del 1987 in cui Langer si chiedeva se, per caso, sulla
bioetica e sul pensiero di natura applicato agli uomini, e non solo ai
boschi e alle cime, non avesse ragione il professor Joseph Ratzinger.
Viene il sospetto, ma forse invece è un buon pensiero, che se il
professor Ratzinger, che quando parlò al Bundestag della cultura
filosofica dei Grünen disse cose notevoli, invece che di teologia e di
spazi pubblici con gli Habermas e i Küng avesse dialogato con il suo
vicino di casa tirolese di montagna e di educazione, del pensiero di
natura e della “compassion” del Dalai Lama e di come costruire una
società che resistesse a tutta la dissipazione del nichilismo, quanto
meno si sarebbe divertito di più, ci avrebbe guadagnato in tempo e in
salute, il professore benedetto.
“La testa tra le nuvole, i piedi ben piantati a terra, la morte negli occhi”.
Andare in montagna come ci vanno tutti non ha più senso. Messner, lo
ha detto nei suoi libri, quello su Mallory e l’Everest o quello sul
Cerro Torre, “Grido di pietra”, avvincente come una detection, in cui
smaschera la mai avvenuta conquista della montagna più incredibile del
mondo da parte di Cesare Maestri (con onestà, lui ammette di non averla
mai salita). Un’altra testa quadra come Werner Herzog ne ha cavato un
film, non granché: “No, il film non è un capolavoro ma è accettabile.
Però non è riuscito a far venire fuori una montagna che respinge la
gente. Io gli avevo spiegato che la montagna è fatta per non essere
vissuta dall’uomo”. Messner non è un naïf, ma uno storico e filologo
dell’alpinismo. Ha prosa da scrittore. Sia che parli di nazionalismo e
colonialismo, sia dello spirito romantico delle upper class, prima che
l’alpinismo diventasse avventura operaia per eccellenza. Ma viene un
momento in cui tutto il passato non ha più senso. E’ con la generazione
dei Bonatti, degli Hermann Buhl, “sostenitori dell’alpinismo estremo”,
che rinasce l’alpinismo come una ragione da opporre allo sport, al
turismo globale. “Ma oggi dove si può andare, se anche le montagne più
alte vengono attrezzate per le ascensioni turistiche di massa? Io dovrei
dire che mi sento ‘fortunato di essere nato prima”. Non è un purista:
“Il nostro modo di sperimentare guardava al passato per puntare al
futuro: sopravvivere alla paura e al terrore, che è quel che noi
chiamiamo avventura”. E ci si avvicina al nocciolo del gioco “senza
scopo”, alla dimensione vera del “conquistatore dell’inutile”, dunque
preziosissimo, quando l’alpinismo lega le sue corde all’appiglio solido
di un pensiero: a quali condizioni è ancora bello, e possibile, essere
vivi e liberi? Un pensiero che rumina la tradizione, che forza le gabbie
di un moderno senza senso, in cui sono negati l’esperienza e la
crescita, in cui i narcisi trasformano tutto in estetismo e banalità.
“Comprendere il senso delle cose e sentirsi felici è saggio più ancora
che auspicabile. Dunque bisogna capire il significato per raggiungere la
felicità”.
“Perché il mio tempo passa sempre più in fretta, e rinunciare mi pesa sempre meno”.
“Un tempo, gli Sherpa ridevano dei miei sogni. Oggi, invidio io loro
per l’umiltà che accompagna la loro vecchiaia”. Ora che ha settant’anni,
Reinhold Messner non ha nessuna urgenza di essere più in forma di
quanto debba. Racconta che “i pastori nomadi del Tibet invitano gli
alpinisti a procedere ‘kalipé’, ‘con passo tranquillo’”. Lo dicevano
anche i pastori del Sud Tirolo e della Val d’Aosta, anche se lui sembra
non volerlo ricordare più. “Non sono un masochista, al contrario, è
possibile immaginare anche Sisifo come uomo felice”. C’è del pensiero
anche in questo. Da qui nasce il lavoro del Messner Mountain Museum, che
è una cosa notevole, non folcloristica, non etnografica. E’ il
tentativo di tenere viva un’idea di uomo che rimbalza trasversale da
tutte le civiltà tradizionali, da tutte le alte quote del pianeta così
come da ogni montagna sono scese, a suo tempo, le parole degli dèi. Una
sfida a tutto ciò che è appiattimento (pianura e città, spaventoso
binomio) dell’esperienza.
Così, quando penso a Reinhold Messner, penso a uno dei pochi italiani
pubblici – le falangi di due mani, le dita di una? – di cui sono
contento di sapere che ancora cammina per il mondo. Senza le sue dieci
falangi dei piedi amputate sul Nanga Parbat, con i suoi pensieri.
“Ovunque io andassi, alla fine si trattava di andare a piedi”.
fonte: Maurizio Crippa, Il Foglio, 22 novembre 2014


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