Circola da molti anni una leggenda metropolitana secondo cui gli
eschimesi abbiano un numero altissimo di parole per definire la neve:
ogni tanto se ne riparla, la si smentisce o la si avvalora. Secondo un
accurato articolo del sito americano MentalFloss ci
sono tre possibili teorie sulla questione, molto diverse tra loro: e
dipende molto da che significato diamo al termine “parola”.
Innanzitutto bisogna sapere che non esiste un’unica lingua eschimese:
il termine “eschimese” comprende generalmente le popolazioni Inuit e
Yupik che abitano tra Alaska, Canada, Groenlandia e Siberia. Queste
popolazioni parlano molte varietà di lingue diverse, tre delle quali
possono considerarsi le principali: la lingua yupik dell’Alaska
centrale, il groenlandese (o kalaallisut) e l’inuktitut dell’Alaska.
Inoltre ci sono molti dialetti diversi in ogni regione; insomma, per
ogni lingua c’è un numero diverso di parole che possono significare
“neve”.
La prima teoria prevede che ci siano circa quattro, cinque parole che
definiscono il concetto di neve. La teoria è stata sviluppata piuttosto
liberamente da antropologi e psicologi negli anni Cinquanta a partire
da un articolo del 1986 di Laura Martin, intitolato “Le parole eschimesi
per dire neve”. Questa teoria è stata utilizzata spesso per spiegare le
relazioni esistenti tra linguaggio, cultura e percezione: se gli
eschimesi hanno creato quattro o cinque parole per definire la neve,
mentre noi ne abbiamo una sola, vuol dire che la loro percezione della
neve è diversa dalla nostra? Da lì la teoria è girata molto e si è
modificata nel tempo. L’articolo di Laura Martin infatti sostiene che ci
siano quattro o cinque parole per definire la neve, mentre con il
passare degli anni si è arrivati a sostenere che ce ne siano venti,
quaranta, cento. La questione poi non era su quante parole ci fossero
nella lingua eschimese per definire la neve, ma era sullo spiegare che
le persone guardano il mondo con occhi diversi e lo si può capire
attraverso il linguaggio.
Questo concetto sollevò poi un altro problema. Un libro del 1827
spiegava che nel linguaggio lappone «c’erano cinque parole per definire
la neve, sette o otto per montagna ma per definire onestà, virtù e
coscienza bisognava ricorrere a una perifrasi». Questo sottintendeva che
la neve e la montagna fossero più importanti per i lapponi rispetto
all’onestà e alla virtù. Gli accademici che nel 1950 esaminarono la
teoria delle relazioni tra linguaggio e percezione non semplificarono il
concetto in questi termini, ma alcune persone trassero comunque le
stesse conclusioni. L’esistenza di parole diverse per definire una cosa
non significa automaticamente che sia più importante di qualcosa per cui
non esistono parole.
Per smentire questa credenza nacque una seconda teoria, tratta dal saggio del 1991 del linguista Geoffrey Pullum intitolato “The Great Eskimo Vocabulary Hoax”
(“La grande bufala del vocabolario eschimese”) e basato più fedelmente
all’articolo di Laura Martin. Questa teoria sostiene che ci siano
soltanto due parole per definire la neve in eschimese e sottolinea che
non ci sono fatti linguistici che supportino l’idea che gli eschimesi
abbiano questo immenso vocabolario a riguardo. Le lingue degli Inuit e
degli Yupik sono polisintetiche, cioè combinano un numero limitato di
radici per creare un numero illimitato di parole. Per esempio dalla
radice oqaq – che in groenlandese significa lingua – derivano oqaaseq (parola), oqaasipiluuppaa (arringare qualcuno), oqaluppoq (parlare), oqaatiginerluppaa (parlare male di qualcuno) e Oqaasileriffik (segretariato
del linguaggio della Groenlandia). Per cui se consideriamo che un
concetto può essere espresso in un’unica parola, gli eschimesi non hanno
centinaia di parole soltanto per definire la neve: hanno molte parole
per tutto.
Laura Martin sostiene che dovremmo invece chiederci quante radici esistono in eschimese per neve. In groenlandese sono due: qanik- (neve nell’aria) e aput- (neve per terra). Da queste radici derivano parole come qanipalaat (soffici fiocchi di neve che cadono) e apusiniq (cumulo
di neve). Esistono anche altri termini che si riferiscono alla neve,
derivanti da altre radici, ma il saggio di Pullum pone il problema se
contarle come parole che si riferiscono direttamente alla neve anche se
hanno altre radici. Dobbiamo considerare tra queste la parola Inuit che
significa “neve per fare gli igloo”? Significa neve o indica
semplicemente un materiale per costruzioni? Perché in questo caso anche
l’inglese ha moltissime parole per la neve, e lo stesso vale per l’italiano: nevischio, valanga, eccetera.
La terza teoria sostiene che ci siano 99 parole eschimesi per dire
neve. È basata sul libro del linguista K. David Harrison, che ha girato
il mondo per studiare le lingue a rischio di estinzione. Nel suo libro, “The Last Speakers“ (gli
ultimi oratori), Harrison sostiene che sia sbagliato pensare che poiché
alcune persone hanno gonfiato il numero delle parole che indicano la
neve in eschimese, il numero reale sia allora ordinario e irrilevante.
Da quello che ha potuto osservare lui «il numero di termini nelle lingue
artiche per neve, ghiaccio, vento e meteo è vasto, ricco e complesso in
modo impressionante».
Gli Yupik per esempio identificano e nominano in modo diverso almeno 99 formazioni di ghiaccio diverse. La parola Nuyileq significa per
esempio “ghiaccio rotto che comincia a espandersi, pericoloso
camminarci sopra”. Il ghiaccio sta quindi scomparendo, ma non si è
ancora disperso in acqua, ed è quindi pericoloso camminarci: si può
cadere e affogare. Questo mostra come un blocco di termini possa
riflettere una serie di caratteristiche diverse e specifiche. Ogni area
di competenza d’altra parte ha una serie di termini specifici: i geologi
hanno molte parole per le rocce, i linguisti hanno molte parole per i
suoni del linguaggio. Le parole Yupik che definiscono la neve sono
importanti, ciascuna a suo modo, per il bagaglio di informazioni che
contengono. Harrison dice: «possiamo ignorare il significato di quel
bagaglio di informazioni a nostro rischio e pericolo».
fonte: Il post
fonte: Il post

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