L'antinomia tra lavoro e capitale non ha la sua sorgente nella
struttura del processo di produzione, e neppure in quella del
processo economico. In generale questo processo dimostra, infatti, la
reciproca compenetrazione tra il lavoro e ciò che siamo abituati a
chiamare il capitale; dimostra il loro legame indissolubile. L'uomo,
lavorando a qualsiasi banco di lavoro, sia esso relativamente primitivo
oppure ultra-moderno, può rendersi conto facilmente che col suo lavoro entra in un duplice patrimonio, cioè
nel patrimonio di ciò che è dato a tutti gli uomini nelle risorse della
natura, e di ciò che gli altri hanno già in precedenza elaborato sulla
base di queste risorse, prima di tutto sviluppando la tecnica, cioè
formando un insieme di strumenti di lavoro sempre più perfetti: l'uomo,
lavorando, al tempo stesso «subentra nel lavoro degli altri».
Accettiamo senza difficoltà una tale immagine del campo e del processo
del lavoro umano, guidati sia dall'intelligenza sia dalla fede che
attinge la luce dalla Parola di Dio. È questa un'immagine coerente, teologica ed insieme umanistica. L'uomo
è in essa il «padrone» delle creature, che sono messe a sua
disposizione nel mondo visibile. Se nel processo del lavoro si scopre
qualche dipendenza, questa è la dipendenza dal Datore di tutte le
risorse della creazione, ed è a sua volta la dipendenza da altri uomini,
da coloro al cui lavoro ed alle cui iniziative dobbiamo le già
perfezionate e ampliate possibilità del nostro lavoro. Di tutto ciò che
nel processo di produzione costituisce un insieme di «cose», degli
strumenti, del capitale, possiamo solo affermare che esso condiziona il lavoro dell'uomo; non possiamo, invece, affermare che esso costituisca quasi il «soggetto» anonimo che rende dipendente l'uomo e il suo lavoro.
La rottura di questa coerente immagine, nella quale è strettamente salvaguardato il principio del primato della persona sulle cose, si è compiuta nel pensiero umano, talvolta
dopo un lungo periodo di incubazione nella vita pratica. E si è
compiuta in modo tale che il lavoro è stato separato dal capitale e
contrapposto al capitale, e il capitale contrapposto al lavoro, quasi
come due forze anonime, due fattori di produzione messi insieme nella
stessa prospettiva «economistica». In tale impostazione del problema vi
era l'errore fondamentale, che si può chiamare l'errore dell'economismo, se
si considera il lavoro umano esclusivamente secondo la sua finalità
economica. Si può anche e si deve chiamare questo errore fondamentale
del pensiero un errore del materialismo, in quanto l'economismo
include, direttamente o indirettamente, la convinzione del primato e
della superiorità di ciò che è materiale, mentre invece esso colloca ciò
che è spirituale e personale (l'operare dell'uomo, i valori morali e
simili), direttamente o indirettamente, in una posizione subordinata
alla realtà materiale. Questo non è ancora il materialismo teorico nel pieno senso della parola; però, è già certamente materialismo pratico, il
quale, non tanto in virtù delle premesse derivanti dalla teoria
materialistica, quanto in virtù di un determinato modo di valutare,
quindi di una certa gerarchia dei beni, basata sulla immediata e
maggiore attrattiva di ciò che è materiale, è giudicato capace di
appagare i bisogni dell'uomo.
L'errore di pensare secondo le categorie dell'economismo è andato di
pari passo col sorgere della filosofia materialistica, con lo sviluppo
di questa filosofia dalla fase più elementare e comune (chiamata anche
materialismo volgare, perché pretende di ridurre la realtà spirituale ad
un fenomeno superfluo) alla fase del cosiddetto materialismo
dialettico. Sembra tuttavia che - nel quadro delle presenti riflessioni
-, per il fondamentale problema del lavoro umano e, in particolare, per
quella separazione e contrapposizione tra «lavoro» e «capitale», come
tra due fattori della produzione considerati in quella stessa
prospettiva «economistica», di cui sopra, l'economismo abbia avuto un'importanza decisiva ed
abbia influito, proprio su tale impostazione non-umanistica di questo
problema, prima del sistema filosofico materialistico.
Nondimeno, è cosa
evidente che il materialismo, anche nella sua forma dialettica, non è
in grado di fornire alla riflessione sul lavoro umano basi sufficienti e
definitive, perché il primato dell'uomo sullo strumento-capitale, il
primato della persona sulle cose, possa trovare in esso un'adeguata ed
irrefutabile verifica e appoggio. Anche nel materialismo
dialettico l'uomo non è, prima di tutto, soggetto del lavoro e causa
efficiente del processo di produzione, ma rimane inteso e trattato in
dipendenza da ciò che è materiale, come una specie di «risultante» dei
rapporti economici e di produzione, predominanti in una data epoca.
Evidentemente l'antinomia tra lavoro e capitale qui considerata - l'antinomia nel cui quadro il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto ad esso, in
un certo senso onticamente, come se fosse un elemento qualsiasi del
processo economico - ha inizio non solamente nella filosofia e nelle
teorie economiche del secolo XVIII, ma molto più ancora in tutta la
prassi economico-sociale di quel tempo, che era quello
dell'industrializzazione che nasceva e si sviluppava precipitosamente,
nella quale si scopriva in primo luogo la possibilità di moltiplicare
grandemente le ricchezze materiali, cioè i mezzi, ma si perdeva di vista
il fine, cioè l'uomo, al quale questi mezzi devono servire. Proprio
questo errore di ordine pratico ha colpito prima di tutto il lavoro umano, l'uomo del lavoro, e
ha causato la reazione sociale, eticamente giusta, della quale si è già
parlato. Lo stesso errore, che ormai ha il suo determinato aspetto
storico, legato col periodo del primitivo capitalismo e liberalismo, può
però ripetersi in altre circostanze di tempo e di luogo, se si parte,
nel ragionamento, dalle stesse premesse sia teoriche che pratiche. Non
si vede altra possibilità di un superamento radicale di questo errore,
se non intervengono adeguati cambiamenti sia nel campo della teoria,
come in quello della pratica, cambiamenti che procedano su una linea di decisa convinzione del primato della persona sulle cose, del lavoro dell'uomo sul capitale come insieme dei mezzi di produzione.
Giovanni Paolo II, Laborem Exercens (1981)

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