venerdì 26 settembre 2025

Nella valle delle mele

 

Castel Thun

Mele della Val di Non


Imponente e austero, ma dotato al tempo stesso di una speciale eleganza, il castello rispecchia il carattere dell'omonima stirpe trentina che vi stabilì la propria sede intorno alla metà del XIII secolo. 

Già al tramonto del Medioevo i Thun estesero i loro domini su gran parte delle valli del Noce, incorporando castelli e giurisdizioni. Da allora rimasero una delle più potenti famiglie feudali della regione, dividendosi in numerosi rami, uno dei quali si radicò in Boemia, dove nel 1629 acquisì, per tutto il casato, il predicato di Thun-Hohenstein e il titolo di conti dell'impero. 

Il maniero sorge in cima al colle sopra il paese di Vigo di Ton, in posizione panoramica rispetto all'intera valle. 

Costituito da torri, mura, bastioni e fossato, deve l'attuale aspetto alle modifiche intraprese nel Cinquecento e nel Seicento. Al 1566 risale la Porta Spagnola attraverso la quale si accede al ponte levatoio e al primo cortile, costruita in stile moresco.


L'ambiente più famoso è la secentesca Stanza del Vescovo, interamente rivestita di legno di cirmolo, con soffitto a cassettoni e stufa in maiolica.



I Thun dimorarono nel castello fino alla morte del conte Zdenko Franz Thun Hohenstein, avvenuta nel 1982.


San Romedio



Nel quarto secolo dell'era cristiana, all'epoca di San Vigilio vescovo di Trento, viveva, in una solitaria e selvaggia valletta della Valle di Non, un eremita chiamato Romedio. 
Narra la tradizione che il vecchio anacoreta, sentendo prossima l'ora della sua morte, desiderasse compiere un ultimo viaggio a Trento per ricevere la benedizione del santo Vescovo. 
Ultimati i preparativi del viaggio, i discepoli di Romedio si apprestavano a sellare il vecchio cavallo dell'eremita quando videro un grosso orso che stava divorando tranquillo la povera bestia legata ai margini del bosco. 
Accorse sul posto, Romedio, senza alcun turbamento e senza paura dell'orso, ordinò a questo di accucciarsi e di lasciarsi sellare. 
L'orso indossò la bardatura del cavallo morto e così Romedio iniziò il suo pellegrinaggio verso Trento. Uno stormo di uccelli accompagnava la piccola carovana annunciando a tutti l'eccezionale viaggiatore che al suo passaggio compiva molti miracoli. 
Al suo arrivo a Trento le campane del Duomo suonarono a festa per rendere omaggio al singolare personaggio. A Sanzeno, in Val di Non, un santuario evoca la figura di San Romedio che visse, secondo la storia, molto probabilmente durante il ciclo longobardo e venne canonizzato verso il 1100.

(da F.Osti "L'orso bruno nel Trentino" - 1999)




Nel luglio del 1809 il patriota tirolese Andreas Hofer, cattolico molto devoto, si recò in pellegrinaggio a San Romedio per invocare la protezione del santo prima di iniziare la sollevazione popolare contro l'invasione dei francesi e bavaresi.
Questo avvenimento è ricordato da una targa all'ingresso del santuario. Ogni anno gli Schützen di tutto il Tirolo si ritrovano al santuario per una celebrazione e una messa.

Andreas Hofer nacque il 22 novembre 1767 presso il maso Sandhof in Val Passiria, figlio di Josef Hofer e di Maria Aigentler. All’età di 3 anni rimase orfano di madre e a quella di 7, nel 1774, perse anche il padre. Josef Griner, marito di Anna, sorella maggiore di Andreas, si prese cura della famiglia. Terminata la scuola elementare Andreas fu mandato nel Tirolo italiano, per imparare la lingua e apprendere il mestiere di oste e contadino. Fu a Cles, presso la famiglia de Miller, dal 1780 al 1785 e poi a Ballino, presso la locanda Armani-Zanini, fino al 1788. Ritornato a gestire il maso di famiglia, si sposò nel 1789 con Anna Ladurner di Lagundo, dalla quale ebbe sette figli.
Nel 1790 fu eletto rappresentante della Val Passiria nel Landtag (Consiglio regionale) e nel corso della prima guerra di coalizione, nel 1796-97, fu impegnato al Passo del Tonale, al comando degli Schützen della Passiria.
Per il suo carisma e i numerosi contatti che aveva allacciato durante la sua permanenza nel Tirolo italiano e nella sua professione di oste, Andreas Hofer fu scelto tra le persone fidate che potessero fungere da tramite tra il governo austriaco e la popolazione tirolese, nei preparativi della sollevazione della popolazione della regione, che dovevano accompagnare l’apertura della guerra tra la Francia e l’Austria.
Fu impegnato sul finire di aprile del 1809, negli eventi che portarono alla cacciata dal Trentino delle truppe franco-bavaresi. Dopo la seconda battaglia del Bergisel, nel mese di maggio, Hofer diventò comandante supremo della regione e nel mese di agosto, dopo la terza battaglia del Bergisel, si insediò a Innsbruck come reggente del Tirolo. All’inizio di novembre, con la soppressione da parte dei francesi della sollevazione popolare tirolese, Hofer si ritirò nella propria valle. Si rifugiò con la famiglia presso una malga sulle montagne della Passiria dove fu catturato dai francesi il 27 gennaio 1810. Fu condotto a Mantova e qui fucilato il 20 febbraio 1810.

sabato 16 agosto 2025

Campagnaccia di sangue

 





Nel mese di maggio 1915 tra i vasti prati del Passo San Pellegrino si verificarono i primi sconfinamenti italiani nell’allora territorio austriaco. Gli austriaci però, erano ben appostati poco oltre il Passo San Pellegrino e sul sovrastante Passo delle Selle, ove costruirono un piccolo villaggio. Fu in questo modo preclusa ogni possibilità di avanzata verso la Val di Fassa.

Il conflitto italo - austriaco si spostò allora sulle creste di Costabella, dove alterne vicende determinarono, a spese di molto sangue, vari spostamenti di confine, con rilievi che diventavano ora italiani, dopo qualche giorno di nuovo austriaci. In particolare, merita di essere ricordata la battaglia del marzo 1917 per il possesso di Cima Costabella, dove tonnellate di piombo e granate si riversarono sugli appostamenti con effetti devastanti per i soldati italiani che li presidiavano.

Alla fine di ottobre di quell’anno, gli austriaci sfondarono sul fronte isontino, il fronte dolomitico venne abbandonato e fra queste montagne ritornò la pace e il silenzio. La zona si presenta ancora oggi ben conservata: caverne, trincee, postazioni, fondamenta di baracche.

(fonte: https://www.frontedeiricordi.it/i-sentieri-storici/costabella)




Il vasto altipiano erboso della Campagnaccia sovrasta il passo San Pellegrino. Oggi viene utilizzato come pascolo estivo e per lo sci in inverno, ma per tutta la durata della guerra questa vasta prateria fu “terra di nessuno” e fu tenuta costantemente sotto tiro dalla prima linea austro- ungarica che si snodava sulle cime sovrastanti (punta Alochet, passo Le Selle, catena di Costabella).

Il 18 giugno 1915 i soldati italiani occuparono i due modesti rilievi di Sas dal Musc e Colifon che delimitano la Campagnaccia verso sud: qui crearono due avamposti in caverne, collegati alle retrovie con lunghe trincee e mulattiere nascoste. Da qui era possibile controllare le creste di Costabella dove si concentrarono i principali scontri tra i due eserciti. In particolare merita di essere ricordata la battaglia del marzo 1917 per il possesso di cima Costabella, nella quale si registrarono molte perdite.

Le postazioni di Sas dal Musc e Colifon furono mantenute dagli italiani fino al novembre 1917, quando tutto il fronte dolomitico fu abbandonato, in seguito ai fatti di Caporetto. Oggi, lungo la catena montuosa Monzoni-Costabella, rimangono molte tracce della permanenza dei due eserciti che è possibile ammirare percorrendo due vie attrezzate che richiedono preparazione ed attrezzatura adeguata: l’alta via Creste di Costabella “Bepi Zac” e l’alta via dei Monzoni dedicata a Bruno Federspiel.









martedì 17 giugno 2025

Giubileo dello Sport: il ricordo di Pier Giorgio Frassati e Giovanni Paolo II

 


Oggi, mentre celebriamo la Solennità della Santissima Trinità, stiamo vivendo le giornate del Giubileo dello Sport. Il binomio Trinità-sport non è esattamente di uso comune, eppure l’accostamento non è fuori luogo. Ogni buona attività umana, infatti, porta in sé un riflesso della bellezza di Dio, e certamente lo sport è tra queste. Del resto, Dio non è statico, non è chiuso in sé. È comunione, viva relazione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che si apre all’umanità e al mondo. La teologia chiama tale realtà pericoresi, cioè “danza”: una danza d’amore reciproco.


È da questo dinamismo divino che sgorga la vita. Noi siamo stati creati da un Dio che si compiace e gioisce nel donare l’esistenza alle sue creature, che “gioca”, come ci ha ricordato la prima Lettura (cfr Pr 8,30-31). Alcuni Padri della Chiesa parlano addirittura, arditamente, di un Deus ludens, di un Dio che si diverte (cfr S. Salonio di Ginevra, In Parabolas Salomonis expositio mystica; S. Gregorio Nazianzeno, Carmina, I, 2, 589). Ecco perché lo sport può aiutarci a incontrare Dio Trinità: perché richiede un movimento dell’io verso l’altro, certamente esteriore, ma anche e soprattutto interiore. Senza questo, si riduce a una sterile competizione di egoismi.


Pensiamo a un’espressione che, nella lingua italiana, si usa comunemente per incitare gli atleti durante le gare: gli spettatori gridano: «Dai!». Forse non ci facciamo caso, ma è un imperativo bellissimo: è l’imperativo del verbo “dare”. E questo può farci riflettere: non si tratta solo di dare una prestazione fisica, magari straordinaria, ma di dare sé stessi, di “giocarsi”. Si tratta di darsi per gli altri – per la propria crescita, per i sostenitori, per i propri cari, per gli allenatori, per i collaboratori, per il pubblico, anche per gli avversari – e, se si è veramente sportivi, questo vale al di là del risultato. San Giovanni Paolo II – uno sportivo, come sappiamo – ne parlava così: «Lo sport è gioia di vivere, gioco, festa, e come tale va valorizzato […] mediante il recupero della sua gratuità, della sua capacità di stringere vincoli di amicizia, di favorire il dialogo e l’apertura degli uni verso gli altri, […] al di sopra delle dure leggi della produzione e del consumo e di ogni altra considerazione puramente utilitaristica e edonistica della vita» (Omelia per il Giubileo degli sportivi, 12 aprile 1984).


In quest’ottica accenniamo allora, in particolare, a tre aspetti che rendono lo sport, oggi, un mezzo prezioso di formazione umana e cristiana.


In primo luogo, in una società segnata dalla solitudine, in cui l’individualismo esasperato ha spostato il baricentro dal “noi” all’“io”, finendo per ignorare l’altro, lo sport – specialmente quando è di squadra – insegna il valore della collaborazione, del camminare insieme, di quel condividere che, come abbiamo detto, è al cuore stesso della vita di Dio (cfr Gv 16,14-15). Può così diventare uno strumento importante di ricomposizione e d’incontro: tra i popoli, nelle comunità, negli ambienti scolastici e lavorativi, nelle famiglie!


In secondo luogo, in una società sempre più digitale, in cui le tecnologie, pur avvicinando persone lontane, spesso allontanano chi sta vicino, lo sport valorizza la concretezza dello stare insieme, il senso del corpo, dello spazio, della fatica, del tempo reale. Così, contro la tentazione di fuggire in mondi virtuali, esso aiuta a mantenere un sano contatto con la natura e con la vita concreta, luogo in cui solo si esercita l’amore (cfr 1Gv 3,18).


In terzo luogo, in una società competitiva, dove sembra che solo i forti e i vincenti meritino di vivere, lo sport insegna anche a perdere, mettendo l’uomo a confronto, nell’arte della sconfitta, con una delle verità più profonde della sua condizione: la fragilità, il limite, l’imperfezione. Questo è importante, perché è dall’esperienza di questa fragilità che ci si apre alla speranza. L’atleta che non sbaglia mai, che non perde mai, non esiste. I campioni non sono macchine infallibili, ma uomini e donne che, anche quando cadono, trovano il coraggio di rialzarsi. Ricordiamo ancora una volta, in proposito, le parole di San Giovanni Paolo II, il quale diceva che Gesù è “il vero atleta di Dio”, perché ha vinto il mondo non con la forza, ma con la fedeltà dell’amore (cfr Omelia nella Messa per il Giubileo degli sportivi, 29 ottobre 2000).


Non è un caso che, nella vita di molti santi del nostro tempo, lo sport abbia avuto un ruolo significativo, sia come pratica personale sia come via di evangelizzazione. Pensiamo al Beato Pier Giorgio Frassati, patrono degli sportivi, che sarà proclamato santo il prossimo 7 settembre. La sua vita, semplice e luminosa, ci ricorda che, come nessuno nasce campione, così nessuno nasce santo. È l’allenamento quotidiano dell’amore che ci avvicina alla vittoria definitiva (cfr Rm 5,3-5) e che ci rende capaci di lavorare all’edificazione di un mondo nuovo. Lo affermava anche San Paolo VI, vent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, ricordando ai membri di un’associazione sportiva cattolica quanto lo sport avesse contribuito a riportare pace e speranza in una società sconvolta dalle conseguenze della guerra (cfr Discorso ai membri del C.S.I., 20 marzo 1965). Diceva: «È la formazione di una società nuova, a cui si rivolgono i vostri sforzi: […] nella consapevolezza che lo sport, nei sani elementi formativi che esso avvalora, può essere utilissimo strumento per l’elevazione spirituale della persona umana, condizione prima e indispensabile di una società ordinata, serena, costruttiva» (ibid.).


Cari sportivi, la Chiesa vi affida una missione bellissima: essere, nelle vostre attività, riflesso dell’amore di Dio Trinità per il bene vostro e dei vostri fratelli. Lasciatevi coinvolgere da questa missione, con entusiasmo: come atleti, come formatori, come società, come gruppi, come famiglie. Papa Francesco amava sottolineare che Maria, nel Vangelo, ci appare attiva, in movimento, perfino “di corsa” (cfr Lc 1,39), pronta, come sanno fare le mamme, a partire a un cenno di Dio per soccorrere i suoi figli (cfr Discorso ai Volontari della GMG, 6 agosto 2023). Chiediamo a Lei di accompagnare le nostre fatiche e i nostri slanci, e di orientarli sempre al meglio, fino alla vittoria più grande: quella dell’eternità, il “campo infinito” dove il gioco non avrà più fine e la gioia sarà piena (cfr 1Cor 9,24-25; 2Tm 4,7-8).


Papa Leone XIV

Giubileo dello Sport, 15 giugno 2025

lunedì 12 maggio 2025

Monti Cimini: un viaggio nella storia tra Farnese, Ruspoli e Orsini

 

Lago di Vico (Viterbo)


L'annuncio dell'elezione di Papa Leone XIV





Caprarola: Palazzo Farnese




La realizzazione di una residenza fortificata a Caprarola venne inizialmente affidata dal cardinale Alessandro Farnese il Vecchio ad Antonio da Sangallo il Giovane che progettò una rocca pentagonale con bastioni angolari. I lavori iniziarono nel 1530, ma furono sospesi nel 1546 a causa della morte del Sangallo. Il cardinale Alessandro il Giovane, insediatosi a sua volta a Caprarola, volle riprendere il progetto del nonno, così, nel 1547, affidò il cantiere al Vignola, ma i lavori ripresero solo nel 1559. Vignola, venuto meno lo scopo difensivo, modificò radicalmente il progetto originale: la costruzione, pur mantenendo la pianta pentagonale dell'originaria fortificazione, venne trasformata in un imponente palazzo rinascimentale, che divenne poi la residenza estiva del cardinale e della sua corte. Al posto dei bastioni d'angolo l'architetto inserì delle ampie terrazze aperte sulla campagna circostante, mentre al centro della residenza fu realizzato un cortile circolare a due piani, con il superiore leggermente arretrato. Vignola fece tagliare la collina con scalinate in modo da isolare il palazzo e, allo stesso tempo, integrarlo armoniosamente con il territorio circostante; inoltre fu aperta una strada rettilinea nel centro del paesino sottostante, così da collegare visivamente il palazzo alla cittadina ed esaltarne la posizione dominante su tutto l'abitato. Diresse personalmente i lavori, almeno fino al 1564, e comunque alla sua morte, nel 1573, l'edificio era praticamente completato.





All'interno della sontuosa dimora lavorarono i migliori pittori e architetti dell'epoca. I temi degli affreschi furono ispirati dal letterato Annibal Caro e realizzati da Taddeo Zuccari, poi sostituito, alla sua morte (1566), dal fratello Federico Zuccari.





Vignanello: Palazzo Ruspoli


Nel 1531 papa Clemente VII concesse Vignanello in feudo a Beatrice Farnese. La figlia di questa, Ottavia, sposò Sforza Marescotti, ed il Farnese papa Paolo III confermò il feudo e lo elevò a contea. Il castello venne costruito attorno al 1574 come sede per la famiglia titolare. Nel XVII secolo vennero creati i giardini di stile rinascimentale ad opera di Ottavia Orsini che aveva sposato un membro della famiglia. I giardini ancora oggi presenti sono uno dei migliori esempi in Italia di giardino all'italiana di stile rinascimentale.Il castello conserva al pian terreno una cappella dedicata a Santa Giacinta Marescotti, membro della famiglia Ruspoli che venne canonizzata da papa Pio VII nel 1807.


Carbognano: ospiti del locandiere Mauro


Bomarzo: il Bosco Sacro

«VOI CHE PEL MONDO GITE ERRANDO VAGHI
DI VEDER MARAVIGLIE ALTE ET STUPENDE
VENITE QUA DOVE SON FACCIE HORRENDE,
ELEFANTI, LEONI, ORSI, ORCHI ET DRAGHI.»


Nel 1547 l'architetto e antiquario Pirro Ligorio su commissione del principe Pier Francesco Orsini (detto Vicino Orsini) progettò e sovrintese alla realizzazione del parco, elevando a sistema, nelle figure mitologiche ivi rappresentate, il genere del grotesque. 




«A Bomarzo la finzione scenica è travolgente; l'osservatore non può contemplare perché è immerso, in un ingranaggio di sensazioni (…), capace di confondere le idee, di sopraffare emotivamente, di coinvolgere in un mondo onirico, assurdo, ludico ed edonistico (…)»
(Bruno Zevi, Barocco Illuminismo, Roma, 1995)










Civita Castellana: la Cattedrale



Sono grato al signor sindaco per le deferenti parole, con le quali ha voluto porgermi il benvenuto a nome dell’Amministrazione Civica, della città e delle autorità presenti; e ringrazio anche tutti voi, convenuti così numerosi ad accogliermi.

“Falerii Veteres”, “Falerii Novi”, Civita Castellana: in questi tre termini sono racchiuse le vicende attraverso cui è passata la storia tre volte millenaria della vostra Città, sviluppatasi in uno scenario naturale, al quale le acque del Tevere e le cime del Soratte e dei monti Cimini fanno da suggestiva corona. In questo territorio gli influssi della civiltà greca ed orientale prima, etrusca poi, han dato origine alla nazione falisca, come attestano numerose e preziose testimonianze pervenuteci, che rivelano l’alto tenore di vita raggiunto già nell’antichità e ricuperato, dopo alcune crisi dell’epoca romana, nei secoli del medioevo e del rinascimento. Il lavoro della ceramica, nella quale i falisci s’imposero come eccellenti maestri d’arte, ha collegato le diverse fasi della vostra storia ed ancora al presente, mentre resta il cardine dell’economia della zona, reca con i suoi prodotti di alta qualità il nome di Civita Castellana ben oltre i confini locali e nazionali.

3. Quando il nuovo verbo di vita, portato dal cristianesimo, giunse alle sponde italiche, si diffuse ben presto in questi luoghi. Ne sono prova l’antichità della sede episcopale, le abbazie, rese celebri dalla presenza di santi e famosi monaci - penso a quelle di san Silvestro, con san Nonnoso, e di santa Maria di Fallen - e la cattedrale di santa Maria il vostro monumento religioso più insigne, nel quale si sintetizza un lungo cammino di forme artistiche, giunte nel rinascimento al loro apice. Civita Castellana è stata, inoltre, città cara ai papi, che vi eressero monumenti ancor oggi ammirati e la elessero e confermarono nel corso dei secoli a centro delle limitrofe diocesi di Orte, Gallese e delle più antiche Nepi e Sute.

Da tali memorie del passato, mi è caro cogliere, in questa occasione, motivi di fervido auspicio per voi, carissimi fratelli e sorelle, per il presente ed il futuro della vostra terra.

In questa domenica, ancora tutta inondata dalla luce pasquale, il Signore ci parla di sé - lo ascolteremo nel Vangelo della Messa - come della vera vite, alla quale occorre restare uniti per produrre abbondanti frutti di bene. Io auguro a ciascuno di voi di essere e di sentirsi ogni giorno sempre più inserito in lui. La storia personale, al pari del progresso ordinato ed autentico dei popoli, ha tutto da guadagnare dall’adesione convinta a quella superiore e serena visione della realtà, che nasce dall’obbedienza della coscienza alla liberante legge del Vangelo. Ne abbiamo un esempio in san Giuseppe, che nella giornata odierna ricordiamo quale protettore dei lavoratori e che, proprio nell’accettazione - difficile, certo, ma così fruttuosa - dei piani divini sulla propria vita, insegna come essere contemporaneamente, in perfetta armonia, uomo di Dio e uomo tra gli uomini. Egli con la propria laboriosità, preveggenza e coraggio nell’affrontare difficoltà anche gravi, contribuisce efficacemente al piano della salvezza e alla santificazione delle realtà terrene.

Civita Castellana, che per i tuoi figli desideri un avvenire degno delle tradizioni dei padri, rimani nel Signore ed egli rimarrà in te. Con lui potrai fare cose veramente splendide, arricchendone la tua già illustre storia.

Per questo oggi, all’inizio di un mese che la devozione del popolo cristiano ha voluto particolarmente dedicato alla beata Vergine Maria, io ti affido alla materna protezione della Madonna, pregandola perché ti sia sempre vicina nei tuoi propositi di concorde operosità e di pacifico progresso, e ti aiuti a non smarrire mai i valori di quella fede che ha sostenuto i passi dei suoi antenati e può rendere, oggi, sicuro il tuo cammino incontro all’ormai prossimo, nuovo millennio.

Giovanni Paolo II, 1 maggio 1988