È scomparso domenica a Roma Elio Toaff, rabbino capo della comunità di
Roma dal 1951 al 2001. Avrebbe compiuto cento anni il prossimo 30
aprile.
Elio Toaff non è stato solo un grande rabbino italiano ma una figura indelebile della storia patria. E ha inciso nel profondo il dialogo tra ebrei e cristiani fin dai tempi della sua vicinanza con Giovanni XXIII per il quale pregò da ebreo nei momenti finali della vita del papa. Una delle immagini più potenti che segnano il rapporto tra le due fedi è stata quella che ritrae Toaff vestito con i paramenti bianchi della tradizione accogliere nella Sinagoga di Roma papa Giovanni Paolo II il 13 aprile del 1986: la prima volta di un pontefice in un Tempio ebraico.
Di quell'incontro scrisse più tardi: "Insieme entrammo nel Tempio. Passai in mezzo al pubblico silenzioso, in piedi, come in sogno, il papa al mio fianco, dietro cardinali, prelati e rabbini: un corteo insolito, e certamente unico nella lunga storia della Sinagoga. Salimmo sulla Tevà e - raccontò - ci volgemmo verso il pubblico. E allora scoppiò l'applauso. Un applauso lunghissimo e liberatorio, non solo per me ma per tutto il pubblico, che finalmente capì fino in fondo l'importanza di quel momento...".
Ma ci fu un punto in cui quel tributo divenne "irrefrenabile" e fu - aggiunse Toaff - "quando il papa disse: 'Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiorì". Un momento storico per un uomo di fede come lui che per 50 anni è stato rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, la più numerosa d'Italia.
Elio Toaff non è stato solo un grande rabbino italiano ma una figura indelebile della storia patria. E ha inciso nel profondo il dialogo tra ebrei e cristiani fin dai tempi della sua vicinanza con Giovanni XXIII per il quale pregò da ebreo nei momenti finali della vita del papa. Una delle immagini più potenti che segnano il rapporto tra le due fedi è stata quella che ritrae Toaff vestito con i paramenti bianchi della tradizione accogliere nella Sinagoga di Roma papa Giovanni Paolo II il 13 aprile del 1986: la prima volta di un pontefice in un Tempio ebraico.
Di quell'incontro scrisse più tardi: "Insieme entrammo nel Tempio. Passai in mezzo al pubblico silenzioso, in piedi, come in sogno, il papa al mio fianco, dietro cardinali, prelati e rabbini: un corteo insolito, e certamente unico nella lunga storia della Sinagoga. Salimmo sulla Tevà e - raccontò - ci volgemmo verso il pubblico. E allora scoppiò l'applauso. Un applauso lunghissimo e liberatorio, non solo per me ma per tutto il pubblico, che finalmente capì fino in fondo l'importanza di quel momento...".
Ma ci fu un punto in cui quel tributo divenne "irrefrenabile" e fu - aggiunse Toaff - "quando il papa disse: 'Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiorì". Un momento storico per un uomo di fede come lui che per 50 anni è stato rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, la più numerosa d'Italia.
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Nato il 30 aprile del 1915 a Livorno, figlio del rabbino capo della città, Toaff era laureato in legge e in teologia all'Università di Pisa dove ottenne anche il titolo di rabbino maggiore. Nel 1941, nel pieno delle leggi razziali, andò a dirigere la Comunità ebraica di Ancona; due anni dopo, nel 1943, raggiunse i partigiani in Versilia. Catturato dai tedeschi - che poco dopo avrebbero compiuto la strage di Santa Anna di Stazzema - riuscì a scampare all'eccidio.
Alla fine della guerra fu nominato rabbino capo di Venezia, dove divenne anche docente di Lettere ebraiche all'Università Cà Foscari. A Roma arrivò nel 1951 raccogliendo l'eredità di un altro grande rabbino capo della capitale, David Prato. Lì trovò una comunità travolta dalla persecuzioni, che aveva subito la grande razzia del 16 ottobre del 1943 e che era stata decimata nei campi di sterminio nazista.
Per 50 anni è stato la massima autorità religiosa degli ebrei romani, figura di primo piano dell'ebraismo italiano ma anche della vita sociale della nazione. Toaff, a detta di molti, era un uomo schietto, affabile e al tempo stesso molto legato ai principi della normativa religiosa ebraica. Figura, fin dalla sua nomina, amatissima dalla comunità romana che spesso lo omaggiava quando passeggiava in 'Piazzà, come gli ebrei romani chiamano il cuore del Ghetto. Toaff ha lasciato la sua carica l'8 ottobre del 2001 a 86 anni: fu lui stesso ad annunciarlo quel giorno al termine delle preghiere in Sinagoga.
Un annuncio che commosse e colpì non solo gli ebrei romani ma l'intero ebraismo italiano. Alla sua autorevolezza, alla sua umanità e alla sua dottrina rese omaggio anche papa Ratzinger. Nel gennaio 2010, nella seconda visita di un pontefice ad un tempio ebraico, Benedetto XVI, prima di entrare in Sinagoga - dove l'attendeva il successore di Toaff, Riccardo Di Segni - il papa si fermò davanti la casa dell'oramai rabbino emerito di Roma dove ci fu l'incontro tra i due.
Vedovo da molti anni di Lia Luperini, Toaff ha avuto quattro figli. Per molti anni Toaff è stato direttore del Collegio rabbinico italiano, dove si formano i futuri rabbini e anche, molto a lungo, presidente del Tribunale rabbinico di Roma. Una raccolta di firme fu promossa anni fa dal segretario confederale della Uil Paolo Pirani per chiedere all'allora presidente Ciampi la nomina a senatore a vita. Oggi l'intero mondo ebraico italiano, e non solo, è in lutto: per Renzo Gattegna, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche, è "morto un uomo straordinario, un punto di riferimento".
Per Riccardo Pacifici, presidente degli ebrei romani, "un gigante della storia che ha ridato orgoglio alle nostre comunità". I funerali si sono svolti lunedì pomeriggio a Livorno, al tempio di piazza Benamozegh. Il feretro è stato esposto per ricevere il saluto della sua città, prima della
celebrazione del funerale al cimitero ebraico dove Toaff è stato tumulato accanto alla moglie.
Elio Toaff è stato "grande lezione di vita, di fede, di dialogo". Lo sottolinea la Conferenza episcopale italiana che, in un telegramma inviato a nome del cardinale Angelo Bagnasco e di monsignor Nunzio Galantino, presidente e segretario generale, esprime le proprie condoglianze alla Comunità ebraica di Roma. "Lo spessore di Toaff - afferma don Cristiano Bettega, direttore dell'Ufficio nazionale per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei, tracciando al Sir un ricordo del rabbino - è tutt'altro che comune: la straordinarietà della sua storia di vita, la profondità della sua cultura, la cordialità del suo sorriso contagioso, la robustezza della sua fede non possono lasciare indifferente il cuore di chi lo ha conosciuto". Mons. Galantino e don Bettega hanno anche reso omaggio alla salma di Toaff.
fonte: Avvenire
Al Dott. Riccardo Di Segni
Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma
Desidero esprimere la mia sentita partecipazione al lutto dei familiari e dell’intera Comunità Ebraica della Capitale per la scomparsa del Rabbino Prof. Elio Toaff, a lungo insigne guida spirituale degli Ebrei di Roma.
Protagonista della storia ebraica e civile italiana degli ultimi decenni, egli seppe conquistare comune stima ed apprezzamento per la sua autorevolezza morale, congiunta a profonda umanità.
Ricordo con riconoscenza il suo generoso impegno e la sincera disponibilità per la promozione del dialogo e delle relazioni fraterne tra ebrei e cattolici, che hanno visto un momento significativo nel suo memorabile incontro con San Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma.
Elevo preghiere all’Altissimo, ricco di amore e di fedeltà, affinché lo accolga nel suo Regno di pace.
Dal Vaticano, 20 aprile 2015 Papa Francesco
INCONTRO CON LA COMUNITÀ EBRAICA
NELLA SINAGOGA DELLA CITTÀ DI ROMA
NELLA SINAGOGA DELLA CITTÀ DI ROMA
DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
Domenica, 13 aprile 1986
Signor Rabbino capo della comunità israelitica di Roma,
signora Presidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane,
signor presidente delle comunità di Roma,
signori rabbini,
cari amici e fratelli ebrei e cristiani, che prendete parte a questa storica celebrazione
signora Presidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane,
signor presidente delle comunità di Roma,
signori rabbini,
cari amici e fratelli ebrei e cristiani, che prendete parte a questa storica celebrazione
1. Vorrei prima di tutto, insieme con voi, ringraziare e lodare il Signore che ha “disteso il cielo e fondato la terra” (cf. Is
51, 16) e che ha scelto Abramo per farlo padre di una moltitudine di
figli, numerosa “come le stelle in cielo” e “come la sabbia che è sul
lido del mare” (Gen 22, 17; 15, 5), perché ha voluto nel mistero
della sua provvidenza, che questa sera si incontrassero in questo vostro
“Tempio maggiore” la comunità ebraica che vive in questa città, fin dal
tempo dei romani antichi, e il Vescovo di Roma e Pastore universale
della Chiesa cattolica.
Sento poi il
dovere di ringraziare il Rabbino capo, prof. Elio Toaff, che ha accolto
con gioia, fin dal primo momento, il progetto di questa visita e che ora
mi riceve con grande apertura di cuore e con vivo senso di ospitalità; e
con lui ringrazio tutti coloro che, nella comunità ebraica romana,
hanno reso possibile questo incontro e si sono in tanti modi impegnati
affinché esso fosse nel contempo una realtà e un simbolo.
Grazie quindi a tutti voi. “Todà rabbà” (grazie tante).
2. Alla luce della parola di Dio testé proclamata e che “vive in eterno” (cf. Is
30, 8), vorrei che riflettessimo insieme, alla presenza del Santo,
benedetto Egli sia! (come si dice nella vostra liturgia), sul fatto e
sul significato di questo incontro tra il Vescovo di Roma, il Papa, e la
comunità ebraica che abita e opera in questa città, a voi e a me tanto
cara.
È da tempo che
pensavo a questa visita. In verità, il Rabbino capo ha avuto la
gentilezza di venire ad incontrarmi, nel febbraio 1981, quando mi recai
in visita pastorale alla vicina parrocchia di San Carlo ai Catinari.
Inoltre, alcuni di voi sono venuti più di una volta in Vaticano, sia in
occasione delle numerose udienze che ho potuto avere con rappresentanti
dell’Ebraismo italiano e mondiale, sia ancor prima, al tempo dei miei
predecessori, Paolo VI, Giovanni XXIII e Pio XII. Mi è poi ben noto che
il Rabbino capo, nella notte che ha preceduto la morte di Papa Giovanni,
non ha esitato ad andare a Piazza san Pietro, accompagnato da un gruppo
di fedeli ebrei, per pregare e vegliare, mescolato tra la folla dei
cattolici e di altri cristiani, quasi a rendere testimonianza, in modo
silenzioso ma così efficace, alla grandezza d’animo di quel Pontefice,
aperto a tutti senza distinzione, e in particolare ai fratelli ebrei.
L’eredità che
vorrei adesso raccogliere è appunto quella di Papa Giovanni, il quale
una volta, passando di qui - come or ora ha ricordato il Rabbino capo -
fece fermare la macchina per benedire la folla di ebrei che uscivano da
questo stesso Tempio. E vorrei raccoglierne l’eredità in questo momento,
trovandomi non più all’esterno bensì, grazie alla vostra generosa
ospitalità, all’interno della Sinagoga di Roma.
3. Questo
incontro conclude, in certo modo, dopo il pontificato di Giovanni XXIII
e il Concilio Vaticano II, un lungo periodo sul quale occorre non
stancarsi di riflettere per trarne gli opportuni insegnamenti. Certo non
si può, né si deve, dimenticare che le circostanze storiche del passato
furono ben diverse da quelle che sono venute faticosamente maturando
nei secoli; alla comune accettazione di una legittima pluralità sul
piano sociale, civile e religioso si è pervenuti con grandi difficoltà.
La considerazione dei secolari condizionamenti culturali non potrebbe
tuttavia impedire di riconoscere che gli atti di discriminazione, di
ingiustificata limitazione della libertà religiosa, di oppressione anche
sul piano della libertà civile, nei confronti degli ebrei, sono stati
oggettivamente manifestazioni gravemente deplorevoli. Sì, ancora una
volta, per mezzo mio, la Chiesa, con le parole del ben noto decreto Nostra Aetate
(n. 4), “deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni
dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei ogni tempo da chiunque”;
ripeto: “da chiunque”.
Una parola di
esecrazione vorrei una volta ancora esprimere per il genocidio decretato
durante l’ultima guerra contro il popolo ebreo e che ha portato
all’olocausto di milioni di vittime innocenti. Visitando il 7 giugno
1979 il lager di Auschwitz e raccogliendomi in preghiera per le tante
vittime di diverse nazioni, mi sono soffermato in particolare davanti
alla lapide con l’iscrizione in lingua ebraica, manifestando così i
sentimenti del mio animo. “Questa iscrizione suscita il ricordo del
popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale.
Questo popolo ha la sua origine da Abramo che è padre della nostra fede
come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo popolo che ha ricevuto
da Dio il comandamento "non uccidere", ha provato su se stesso in
misura particolare che cosa significa l’uccidere. Davanti a questa
lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza” (Insegnamenti 1979, p. 1484).
Anche la
Comunità ebraica di Roma pagò un alto prezzo di sangue. Ed è stato
certamente un gesto significativo che, negli anni bui della persecuzione
razziale, le porte dei nostri conventi, delle nostre chiese, del
Seminario romano, di edifici della Santa Sede e della stessa Città del
Vaticano si siano spalancate per offrire rifugio e salvezza a tanti
ebrei di Roma, braccati dai persecutori.
4. L’odierna
visita vuole recare un deciso contributo al consolidamento dei buoni
rapporti tra le nostre due comunità, sulla scia degli esempi offerti da
tanti uomini e donne, che si sono impegnati e si impegnano tuttora,
dall’una e dall’altra parte, perché siano superati i vecchi pregiudizi e
si faccia spazio al riconoscimento sempre più pieno di quel “vincolo” e
di quel “comune patrimonio spirituale” che esistono tra ebrei e
cristiani. È questo l’auspicio che già esprimeva il paragrafo n. 4, che
ho ora ricordato, della dichiarazione conciliare Nostra Aetate
sui rapporti tra la Chiesa e le religioni non cristiane. La svolta
decisiva nei rapporti della Chiesa cattolica con l’Ebraismo, e con i
singoli ebrei, si è avuta con questo breve ma lapidario paragrafo.
Siamo tutti consapevoli che, tra le molte ricchezze di questo numero 4 della Nostra Aetate, tre punti sono specialmente rilevanti. Vorrei sottolinearli qui, davanti a voi, in questa circostanza veramente unica.
Il primo è che
la Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’Ebraismo “scrutando il
suo proprio mistero”. La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in
un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi
verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione.
Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire
i nostri fratelli maggiori.
Il secondo
punto rilevato dal Concilio è che agli ebrei, come popolo, non può
essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò “che è stato
fatto nella passione di Gesù”. Non indistintamente agli ebrei di quel
tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. È quindi
inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure
discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà
ciascuno “secondo le proprie opere”, gli ebrei come i cristiani (cf. Rm 2, 6).
Il terzo punto
che vorrei sottolineare nella dichiarazione conciliare è la conseguenza
del secondo; non è lecito dire, nonostante la coscienza che la Chiesa ha
della propria identità, che gli ebrei sono “reprobi o maledetti”, come
se ciò fosse insegnato, o potesse venire dedotto dalle Sacre Scritture,
dell’Antico come del Nuovo Testamento. Anzi, aveva detto prima il
Concilio, in questo stesso brano della Nostra Aetate, ma anche nella costituzione dogmatica Lumen gentium (Lumen gentium, 6), citando san Paolo nella lettera ai Romani (Rm 11, 28-29), che gli ebrei “rimangono carissimi a Dio”, che li ha chiamati con una “vocazione irrevocabile”.
5. Su
queste convinzioni poggiano i nostri rapporti attuali. Nell’occasione
di questa visita alla vostra Sinagoga, io desidero riaffermarle e
proclamarle nel loro valore perenne. È infatti questo il significato che
si deve attribuire alla mia visita in mezzo a voi, ebrei di Roma.
Non è certo
perché le differenze tra noi siano ormai superate che sono venuto tra
voi. Sappiamo bene che così non è. Anzitutto, ciascuna delle nostre
religioni, nella piena consapevolezza dei molti legami che la uniscono
all’altra, e in primo luogo di quel “legame” di cui parla il Concilio,
vuole essere riconosciuta e rispettata nella propria identità, al di là
di ogni sincretismo e di ogni equivoca appropriazione.
Inoltre è
doveroso dire che la strada intrapresa è ancora agli inizi, e che quindi
ci vorrà ancora parecchio, nonostante i grandi sforzi già fatti da una
parte e dall’altra, per sopprimere ogni forma seppur subdola di
pregiudizio, per adeguare ogni maniera di esprimersi e quindi per
presentare sempre e ovunque, a noi stessi e agli altri, il vero volto
degli ebrei e dell’Ebraismo, come anche dei cristiani e del
Cristianesimo, e ciò ad ogni livello di mentalità, di insegnamento e di
comunicazione.
A questo
riguardo, vorrei ricordare ai miei fratelli e sorelle della Chiesa
cattolica, anche di Roma, il fatto che gli strumenti di applicazione del
Concilio in questo campo preciso sono già a disposizione di tutti, nei
due documenti pubblicati rispettivamente nel 1974 e nel 1985 dalla
Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo. Si
tratta soltanto di studiarli con attenzione, di immedesimarsi nei loro
insegnamenti e di metterli in pratica.
Restano forse
ancora fra di noi difficoltà di ordine pratico, che attendono di essere
superate sul piano delle relazioni fraterne: esse sono frutto sia dei
secoli di mutua incomprensione, sia anche di posizioni diverse e di
atteggiamenti non facilmente componibili in materie complesse e
importanti.
A nessuno
sfugge che la divergenza fondamentale fin dalle origini è l’adesione di
noi cristiani alla persona e all’insegnamento di Gesù di Nazaret, figlio
del vostro popolo, dal quale sono nati anche Maria Vergine, gli
apostoli, “fondamento e colonne della Chiesa”, e la maggioranza dei
membri della prima comunità cristiana. Ma questa adesione si pone
nell’ordine della fede, cioè nell’assenso libero dell’intelligenza e del
cuore guidati dallo Spirito, e non può mai essere oggetto di una
pressione esteriore, in un senso o nell’altro; è questo il motivo per il
quale noi siamo disposti ad approfondire il dialogo in lealtà e
amicizia, nel rispetto delle intime convinzioni degli uni e degli altri,
prendendo come base fondamentale gli elementi della rivelazione che
abbiamo in comune, come “grande patrimonio spirituale” (cf. Nostra Aetate, 4).
6. Occorre
dire, poi, che le vie aperte alla nostra collaborazione, alla luce
della comune eredità tratta dalla Legge e dai profeti, sono varie e
importanti. Vogliamo ricordare anzitutto una collaborazione in favore
dell’uomo, della sua vita dal concepimento fino alla morte naturale,
della sua dignità, della sua libertà, dei suoi diritti, del suo
svilupparsi in una società non ostile, ma amica e favorevole, dove regni
la giustizia e dove, in questa nazione, nei continenti e nel mondo, sia
la pace a imperare, lo “shalom” auspicato dai legislatori, dai profeti e
dai saggi d’Israele.
Vi è, più in
generale, il problema morale, il grande campo dell’etica individuale e
sociale. Siamo tutti consapevoli quanto sia acuta la crisi su questo
punto nel tempo in cui viviamo. In una società spesso smarrita
nell’agnosticismo e nell’individualismo e che soffre le amare
conseguenze dell’egoismo e della violenza, ebrei e cristiani sono
depositari e testimoni di un’etica segnata dai dieci Comandamenti, nella
cui osservanza l’uomo trova la sua verità e libertà. Promuovere una
comune riflessione e collaborazione su questo punto è uno dei grandi
doveri dell’ora.
E finalmente
vorrei rivolgere il pensiero a questa Città dove convive la comunità dei
cattolici con il suo Vescovo, la comunità degli ebrei con le sue
autorità e con il suo Rabbino capo. Non sia la nostra soltanto una
“convivenza” di stretta misura, quasi una giustapposizione, intercalata
da limitati e occasionali incontri, ma sia essa animata da amore
fraterno.
7. I
problemi di Roma sono tanti. Voi lo sapete bene. Ciascuno di noi, alla
luce di quella benedetta eredità a cui prima accennavo, sa di essere
tenuto a collaborare, in qualche misura almeno, alla loro soluzione.
Cerchiamo, per quanto possibile, di farlo insieme; che da questa mia
visita e da questa nostra raggiunta concordia e serenità sgorghi, come
il fiume che Ezechiele vide sgorgare dalla porta orientale del Tempio di
Gerusalemme (cf. Ez 47, 1 ss.), una sorgente fresca e benefica che aiuti a sanare le piaghe di cui Roma soffre.
Nel far ciò, mi
permetto di dire, saremo fedeli ai nostri rispettivi impegni più sacri,
ma anche a quel che più profondamente ci unisce e ci raduna: la fede in
un solo Dio che “ama gli stranieri” e “rende giustizia all’orfano e
alla vedova” (cf. Dt 10, 18), impegnando anche noi ad amarli e a soccorrerli (cf. Lv
19, 18. 34). I cristiani hanno imparato questa volontà del Signore
dalla Torah, che voi qui venerate, e da Gesù che ha portato fino alle
estreme conseguenze l’amore domandato dalla Torah.
8. Non
mi rimane adesso che rivolgere, come all’inizio di questa mia
allocuzione, gli occhi e la mente al Signore, per ringraziarlo e lodarlo
per questo felice incontro e per i beni che da esso già scaturiscono,
per la ritrovata fratellanza e per la nuova più profonda intesa tra di
noi qui a Roma, e tra la Chiesa e l’Ebraismo dappertutto, in ogni Paese,
a beneficio di tutti. Perciò vorrei dire con il salmista, nella sua
lingua originale che è anche la vostra ereditaria: “Celebrate il
Signore, perché è buono: perché eterna è la sua misericordia. / Dica
Israele che egli è buono: / eterna è la sua misericordia. / Lo dica chi
teme Dio: / eterna è la sua misericordia (Sal 118, 1-2. 4). Amen.

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