lunedì 6 gennaio 2025

La benedizione del gesso

 


La benedizione del gesso è un'antica usanza fa parte delle tradizioni cristiane legate all'Epifania.


Descrizione

Che sia la dodicesima notte (5 gennaio), il dodicesimo giorno di Natale, la vigilia della festa dell'Epifania, oppure il giorno stesso dell'Epifania (6 gennaio), molti cristiani in tutto il mondo (inclusi anglicani, luterani, metodisti, presbiteriani e cattolici romani) scrivono con un gesso sulle loro porte una formula, formata da numeri e lettere, per invocare la benedizione del Signore sull'abitazione e sulle persone che la abitano.

In alcune località, ma non in tutte, il gesso usato per scrivere la formula della benedizione è benedetto da un sacerdote o ministro cristiano durante una particolare funzione nel giorno dell'Epifania; i cristiani poi portano a casa il gesso e lo usano per scrivere la formula.

Questa usanza ha radici bibliche legate alla Pasqua. Nell'Antico Testamento (Es 12: 1f) è descritto di come gli israeliti segnarono le porte delle loro case per essere salvati dalla morte; allo stesso modo la pratica dell'Epifania serve a proteggere le case cristiane fino all'Epifania successiva, quando l'usanza viene ripetuta.

Le famiglie compiono questo atto perché rappresenta l'ospitalità della Sacra Famiglia ai Magi (e tutti i Gentili ); serve quindi come benedizione per invocare la presenza di Dio nella propria casa.

In Italia la tradizione è ancora viva e molto diffusa principalmente nelle regioni del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia, ma anche in altri luoghi dell'arco alpino.

La Chiesa cattolica riconosce questa pratica come genuina espressione di pietà popolare.

Questa usanza che spesso è celebrata mediante processioni di bambini accompagnati dai genitori (i Cantori della Stella), esprime la benedizione di Cristo per intercessione dei tre Re Magi ed è occasione di raccolta di offerte a scopo caritativo e missionario.


Formula

Sulla porta vengono segnate con un comune gesso bianco le croci che rappresentano Cristo, la cifra dell'anno solare appena iniziato aggiunta ai lati dell'iscrizione e solitamente spezzata in due, mentre la parte centrale è formata dalle lettere C✝M✝B (oppure G✝M✝B o anche K✝M✝B) che sono le iniziali dei tradizionali nomi dei Magi: Gaspare (Caspar o Kaspar in tedesco e in diverse altre lingue), Melchiorre e Baldassarre. 

Tali lettere corrispondono anche all'acronimo della benedizione latina Christus Mansionem Benedicat, che significa: "Cristo benedica [questa] casa".

All'acronimo sono stati attribuiti altri significati, per lo più di carattere devozionale-edificante, come Christus Multorum Benefactor ("Cristo il benefattore di molti").

Un'altra forma, prevista per la benedizione nel giorno dei Tre Re, è quella di contrassegnare la porta con IIIK (dove il numero romano tre è seguito dalla lettera "K" che sta per" Re").

In Polonia l'iscrizione C M B può anche essere sostituita dalle lettere JMJ (iniziali di: Gesù, Maria, Giuseppe, cioè la Sacra Famiglia); quest'ultimo simbolo è usato molto raramente.


Rito della benedizione

Preghiere per la benedizione del gesso e della casa - Rituale Romano in latino

Benedizione dei gessetti

Tradizionalmente un sacerdote benedice il gesso nella festa dell'Epifania pronunciando la seguente preghiera:

Benedici, Signore Dio, questa creta (o questo gesso) tua creatura: perché abbia un salutare effetto per il genere umano; e concedi, per invocazione del tuo santissimo nome, che chiunque l’avrà presa o con essa avrà scritto sulle porte di casa sua i nomi dei tuoi santi Gaspare, Melchiorre e Bardassarre, per la loro intercessione e i loro meriti, riceva la salute del corpo e la protezione dell’anima.





Benedizione delle case

Una volta ottenuto il gesso benedetto, un prete o un membro della famiglia può benedire la casa nel modo seguente:

V. Pace a questa casa.

R. E a coloro che vi abitano.

Antifona – I Magi vennero dall’Oriente a Betlemme per adorare il Signore e, aperti i loro scrigni gli offrirono doni preziosi: oro come a gran Re; incenso come a Dio vero; mirra per la sua sepoltura, alleluia.

Magnificat …

Durante il canto del Magnificat si asperge e incensa la casa. Quindi, concluso il cantico, si ripete l’antifona.

Padre nostro in segreto fino a

V. E non ci indurre in tentazione.

R. Ma liberaci dal male.

V. Tutti quelli di Saba verranno.

R. E porteranno incenso e oro.

V. Signore, ascolta la mia preghiera.

R. E il mio grido giunga fino a te.

V. Il Signore sia con voi.

R. E con il tuo spirito.


Preghiamo

O Dio, che in questo giorno colla guida d’una stella hai rivelato ai Gentili il tuo Unigenito; concedi benigno, che, mentre noi già ti abbiamo conosciuto per fede, giungiamo a contemplare lo splendore della tua maestà. Per il medesimo nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

R. Amen.

Responsorio – Risplendi, risplendi, Gerusalemme, poiché viene la tua luce: sorta è su di te la gloria del Signore, Gesù Cristo nato da Maria Vergine.

V. E le Genti cammineranno alla tua luce, e i re allo splendore che nasce in te.

R. E la gloria del Signore è spuntata su di te.

Preghiamo.

Benedici, o Signore Dio onnipotente, questa casa, affinché in essa ci siano salute, purezza, forza di vittoria, umiltà, bontà e misericordia, l’adempimento della tua legge, il ringraziamento a Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. E rimanga questa benedizione su questa casa e su tutti coloro che vi dimorano. Per Cristo nostro Signore.

R. Amen.

domenica 5 gennaio 2025

Aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra

 



“Offrirono i doni...”.  

Con questo gesto i tre re magi dall’oriente portano a compimento lo scopo del loro viaggio. Esso li ha condotti per le vie di quelle terre verso le quali anche gli avvenimenti contemporanei spesso richiamano la nostra attenzione. La guida su queste vie per i tre re magi fu quella misteriosa stella “che avevano visto nel suo sorgere” (Mt 2,9), e che “li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino” (Mt 2,9). Proprio a questo bambino andarono quegli uomini insoliti, chiamati fuori dalla cerchia del popolo eletto verso le vie della storia di questo popolo.  

La storia d’Israele aveva dato loro l’ordine di fermarsi a Gerusalemme e di porre - dinanzi a Erode - la domanda: “Dov’è il re dei Giudei che è nato”? (Mt 2,2). Infatti le vie della storia d’Israele erano state tracciate da Dio,e perciò era necessario cercarle nei libri dei profeti: di coloro cioè che a nome di Dio avevano parlato al popolo della sua particolare vocazione. E la vocazione del popolo dell’alleanza fu proprio colui al quale conduceva la via dei re magi dall’oriente. Appena essi ebbero posto quella domanda dinanzi a Erode, egli non ebbe nessun dubbio di chi - e di quale re - si trattasse, perché, come leggiamo “riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia” (Mt 2,4).  

Così dunque la via dei re magi conduce al Messia, a colui che il Padre “ha consacrato e mandato nel mondo” (Gv 10,36). La loro via è anche la via dello Spirito. È soprattutto la via nello Spirito Santo. Percorrendo questa via - non tanto sulle strade delle regioni del medio oriente, quanto piuttosto attraverso i misteriosi cammini dell’anima - l’uomo è condotto dalla luce spirituale proveniente da Dio, raffigurata da quella stella, che seguivano i tre re magi.  

I cammini dell’anima umana, che conducono verso Dio, fanno sì che l’uomo ritrovi in sé un tesoro interiore. Così leggiamo anche dei tre re magi, che giunti a Betlemme “aprirono i loro scrigni” (Mt 2,11). L’uomo prende coscienza di quali enormi doni di natura e di grazia Dio lo abbia colmato, ed allora nasce in lui il bisogno di offrirsi, di restituire a Dio ciò che ha ricevuto, di farne offerta come segno della elargizione divina. Questo dono assume una triplice forma - così come nelle mani dei tre re magi:  

“aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra” (Mt 2,11).  

Giovanni Paolo II, 6 gennaio 1980


venerdì 20 dicembre 2024

Le gobbe di Buzzati

Dino Buzzati (Belluno 1908 – Milano 1972)

Quando è scesa la notte a me piace fare una passeggiata nel giardino. Non crediate io sia ricco. Un giardino come il mio lo avete tutti. E più tardi capirete il perché. Nel. buio, ma non è proprio completamente buio perché dalle finestre accese della casa un vago riverbero viene, nel buio io cammino sul prato, le scarpe un poco affondando nell'erba, e intanto penso, e pensando alzo gli occhi a guardare il cielo se è sereno e, se ci sono le stelle, le osservo domandandomi tante cose. Però certe notti non mi faccio domande, le stelle se ne stanno lassù sopra di me stupidissime e non mi dicono niente. Ero un ragazzo quando facendo la mia passeggiata notturna inciampai in un ostacolo. Non vedendo, accesi un fiammifero. Sulla liscia superficie del prato c'era una protuberanza e la cosa era strana. Forse il giardiniere avrà fatto un lavoro, pensai, gliene chiederò ragione domani mattina.

All'indomani chiamai il giardiniere, il suo nome era Giacomo. Gli dissi: «Che cosa hai fatto in giardino, nel prato c'è come una gobba, ieri sera ci sono incespicato e questa mattina appena si è fatta luce l'ho vista. È una gobba stretta e oblunga, assomiglia a un tumulo mortuario. Mi vuoi dire che cosa succede? ». « Non è che assomiglia, signore» disse il giardiniere Giacomo « è proprio un tumulo mortuario. Perché ieri, signore, è morto un suo amico. »

Era vero. Il mio carissimo amico Sandro Bartoli di ventun anni era morto in montagna col cranio sfracellato. « E tu vuoi dire » dissi a Giacomo « che il mio amico è stato sepolto qui? »

« No » lui rispose « il suo amico signor Bartoli » egli disse cosi perché era delle vecchie generazioni e perciò ancor rispettoso « è stato sepolto ai piedi delle montagne che lei sa. Ma qui nel giardino il prato si è sollevato da solo, perché questo è il suo giardino, signore, e tutto ciò che succede nella sua vita, signore, avrà un seguito precisamente qui. »

« Va', va', ti prego, queste sono superstizioni assurde » gli dissi « ti prego di spianare quella gobba. » Dopodiché non se ne fece nulla e la gobba rimase e io continuai alla sera, dopo che era scesa la notte, a passeggiare in giardino e ogni tanto mi capitava di incespicare nella gobba ma non tanto spesso dato che il giardino è abbastanza grande, era una gobba larga settanta centimetri e lunga un metro e novanta e sopra vi cresceva l'erba e l'altezza dal livello del prato sarà stata di venticinque centimetri. Naturalmente ogni volta che inciampavo nella gobba pensavo a lui, al caro amico perduto. Ma poteva anche darsi che fosse il viceversa. Vale a dire che andassi a sbattere nella gobba perché in quel momento stavo pensando all'amico. Ma questa faccenda è piuttosto difficile da capire.

Passavano per esempio due o tre mesi senza che io nel buio, durante la passeggiata notturna, mi imbattessi in quel piccolo rilievo. In questo caso il ricordo di lui mi ritornava, allora mi fermavo e nel silenzio della notte a voce alta chiedevo: Dormi? Ma lui non rispondeva.

Lui effettivamente dormiva, però lontano, sotto le erode, in un cimitero di montagna, e con gli anni nessuno si ricordava più di lui, nessuno gli portava fiori.  Tuttavia molti anni passarono ed ecco che una sera, nel corso della passeggiata, proprio nell'angolo opposto del giardino, inciampai in un'altra gobba. Per poco non andai lungo disteso. Era passata mezzanotte, tutti erano andati a dormire ma tale era la mia irritazione che mi misi a chiamare: Giacomo, Giacomo, proprio allo scopo di svegliarlo. Si accese infatti una finestra, Giacomo si affacciò al davanzale.

« Cosa diavolo è questa gobba? » gridavo. « Hai fatto qualche scavo? ».

« Nossignore. Solo che nel frattempo se ne è andato un suo caro compagno di lavoro » egli disse. « Il nome è Cornali. » Senonché qualche tempo dopo urtai in una terza gobba e benché fosse notte fonda anche stavolta chiamai Giacomo che stava dormendo. Sapevo benissimo oramai che significato aveva quella gobba ma brutte notizie quel giorno non mi erano arrivate, perciò ero ansioso di sapere. Lui, Giacomo, paziente, comparve alla finestra. « Chi è? » chiesi. « È morto qualcuno? » « Sissignore » egli disse. « Si chiamava Giuseppe Patanè ».


Passarono quindi alcuni anni abbastanza tranquilli ma a un certo punto la moltiplicazione delle gobbe riprese nel prato del giardino. Ce ne erano di piccole ma ne erano venute su anche di gigantesche che non si potevano scavalcare con un passo ma bisognava veramente salire da una parte e poi scendere dall'altra come se fossero delle collinette. Di questa importanza ne crebbero due a breve distanza luna dall'altra e non ci fu bisogno di chiedere a Giacomo che cosa fosse successo. Là sotto, in quei due cumuli alti come un bisonte, stavano chiusi cari pezzi della mia vita strappati crudelmente via.

Perciò ogni qualvolta nel buio mi scontravo con questi due terribili monticoli, molte faccende dolorose mi si rimescolavano dentro e io restavo là come un bambino spaventato, e chiamavo gli amici per nome. Cornali chiamavo, Patanè, Rebizzi, Longanesi, Mauri chiamavo, quelli che erano cresciuti con me, che per molti anni avevano lavorato con me. E poi a voce ancora piti alta: Negro! Vergani! Era come fare l'appello. Ma nessuno rispondeva.

A poco a poco il mio giardino, dunque, che un tempo era liscio e agevole al passo, si è trasformato in campo di battaglia, l'erba c'è ancora ma il prato sale e scende in un labirinto di monticelli, gobbe, protuberanze, rilievi e ognuna di queste escrescenze corrisponde a un nome, ogni nome corrisponde a un amico, ogni amico corrisponde a una tomba lontana e a un vuoto dentro di me. Quest'estate poi ne venne su una cosi alta che quando fui vicino il suo profilo cancellò la vista delle stelle, era grande come un elefante, come una casetta, era qualcosa di spaventoso salirvi, una specie di arrampicata, assolutamente conveniva evitarla girandovi intorno. Quel giorno non mi era giunta nessuna brutta notizia, perciò quella novità nel giardino mi stupiva moltissimo. Ma anche stavolta subito seppi: era il mio più caro amico della giovinezza che se n'era andato, fra lui e me c'erano state tante verità, insieme avevamo scoperto il mondo, la vita e le cose più belle, insieme avevamo esplorato la poesia i quadri la musica le montagne ed era logico che per contenere tutto questo sterminato materiale, sia pure riassunto e sintetizzato nei minimi termini, occorreva una montagnola vera e propria.

Ebbi a questo punto un moto di ribellione. No, non poteva essere, mi dissi spaventato. E ancora una volta chiamai gli amici per nome. Cornali Patanè Rebizzi Longanesi chiamavo Mauri Negro Vergani Segala Orlandi Chiarelli Brambilla. A questo punto ci fu una specie di soffio nella notte che mi rispondeva di si, giurerei che una specie di voce mi diceva di si e veniva da altri mondi, ma forse era soltanto la voce di un uccello notturno perché agli uccelli notturni piace il mio giardino. Ora non ditemi, vi prego: perché vai discorrendo di queste orribili tristezze, la vita è già cosi breve e difficile per se stessa, amareggiarci di proposito è cretino; in fin dei conti queste tristezze non ci riguardano, riguardano solo te. No, io rispondo, purtroppo riguardano anche voi, sarebbe bello, lo so, che non vi riguardassero. Perché questa faccenda delle gobbe del prato accade a tutti, e ciascuno di noi, mi sono spiegato finalmente, è proprietario di un giardino dove succedono quei dolorosi fenomeni. È un'antica storia che si è ripetuta dal principio dei secoli, anche per voi si ripeterà. E non è uno scherzetto letterario, le cose stanno proprio cosi.

Naturalmente mi domando anche se in qualche giardino sorgerà un giorno una gobba che mi riguarda, magari una gobbettina di secondo o terzo ordine, appena un'increspatura del prato che di giorno, quando il sole batte dall'alto, manco si riuscirà a vedere. Comunque, una persona al mondo, almeno una, vi incespicherà. Può darsi che, per colpa del mio dannato carattere, io muoia solo come un cane in fondo a un vecchio e deserto corridoio. Eppure una persona quella sera inciamperà nella gobbetta cresciuta nel giardino e inciamperà anche la notte successiva e ogni volta penserà, perdonate la mia speranza, con un filo di rimpianto penserà a un certo tipo che si chiamava Dino Buzzati.

Dino Buzzati


sabato 19 ottobre 2024

Un'immagine cinquecentesca del monte San Vicino

 

Monte Roberto: Abbazia di Sant'Apollinare

L'abbazia di Sant'Apollinare sorge nella frazione di Pianello Vallesina, comune di Monte Roberto, in provincia di Ancona.

È probabilmente la più antica abbazia della Vallesina e sorge sull'area ipotizzata dell'antica Planina raccontata da Plinio il Vecchio nella Naturalis historia, in una zona circondata dal verde e da dolci colline puntellate di antichi paesi medievali, i Castelli di Jesi.

L'Abbazia venne fondata nel VII-VIII secolo dai monaci benedettini migrati nella Vallesina. Quest'ultimi utilizzarono come materiale da costruzione, i resti dell'antica Planina, andata distrutta dalle incursioni barbariche. Venne dedicata a Sant'Apollinare, vescovo di Ravenna, come eco del dominio ravennate-bizantino del VI-VII secolo che vedeva in queste terre la zona di confine tra Bizantini e Longobardi.

Conobbe il massimo splendore nei secoli XIII-XIV, quando i loro abati riscuotevano le decime della Diocesi per la Santa Sede. Il XIII secolo vide, infatti, anche la ricostruzione della chiesa attuale, dalle semplici forme, con facciata a capanna tripartita e corpo leggermente aggettante incentrato sul portale gotico. L'interno è a unica navata con copertura a capriate e abside piatta.

Nel Quattrocento iniziò quel lento decadimento che portò al definitivo abbandono dei monaci nel XVI secolo.

Sulla parete absidale si stende l'affresco, riscoperto durante i restauri del 1973, che rappresenta la Madonna in trono tra S. Apollinare a sinistra e S. Antonio abate a destra. 

Il Bambino, adornato da una collanina in corallo segno di regalità, tiene in mano il mondo.

Nella lunetta superiore è raffigurata una Crocefissione, in cui il Cristo si staglia su un gruppo di montagne, tra le quali è riconoscibile il S. Vicino, per la tipica forma ad elmo.

L'affresco, datato 1508, è stato attribuito ad Arcangelo, figlio di Andrea di Bartolo, autore della Madonna delle Grazie di Jesi. Da Andrea discende una serie ininterrotta di pittori fino al secolo XVIII, appellata con il nome collettivo di Aquilini.