sabato 12 novembre 2016

Seguendo la bussola del cuore



Sugli Appennini si arriva seguendo la bussola del cuore. Non si capita per caso sulla spina dorsale dell'Italia. Non ci sono autostrade, né aeroporti, né treni veloci. Per raggiungerli ci vuol tempo: in linea d'aria Amatrice dista da Roma poco più di cento chilometri. Ma si impiega meno ad arrivare a Parigi con un low cost. E non ci si capita nemmeno per scelta. Molti italiani neanche sanno che esistono il Parco nazionale dei Monti Sibillini e quello dei Monti della Laga. Qualche straniero amante della genuina solitudine (olandesi, tedeschi, rari inglesi) ha ristrutturato ovili, casali, fattorie. Ma non esiste il turismo di massa che ha arricchito (e stravolto) le montagne del Nord. Nei musei civici e archeologici disseminati nelle cittadine della Sabina, del maceratese, del piceno, del teramano, non ci sono opere di Raffaello o Piero della Francesca, ma di Paolo da Visso e Cola dell'Amatrice: grandi artisti del XV e XVI secolo, però poco noti. Nelle chiese e nei santuari, icone, statue di legno e cicli di affreschi magnifici, ma anonimi.

Così, nonostante la bellezza del paesaggio — squisitamente italiana nella combinazione di natura selvatica modificata dall'intervento umano, dunque una bellezza culturale — e quella armoniosa dei borghi, e fin delle minuscole frazioni aggruppate sui colli, sugli speroni, sulle falde di monti dai nomi ai più sconosciuti, chi viene qui di solito ritorna. Alla casa del padre, della madre, dei nonni, dei bisnonni. È un legame ancestrale, una fedeltà peculiarmente italiana, che fa tornare i figli, e i figli dei figli. Quasi soltanto d'estate, ormai. E, nell'estate, quasi soltanto dieci giorni. Gli Appennini rivivono davvero dal sedici agosto all'ultimo fine settimana del mese. È come un pellegrinaggio laico all'origine, alla sorgente della propria vita: una festa popolare — il cui simbolo è la sagra degli spaghetti di Amatrice. Ma ogni paese ha la sua: si celebrano la pecora, la trota, la salsiccia, il fungo, la lenticchia, le cotiche, il gambero di fiume. Materie prime, e primarie, di un modo di vivere tramontato, ma non interrotto. Che risorge — ciclicamente — non come pretesto escogitato dalle pro loco, ma come memoria vivente. La sagra è l'allegoria del ritorno. Poi i paesi si svuotano, fino all'anno successivo. Crudelissima anche per questo la scossa: tra due mesi, il tributo di vite umane sarebbe stato molto meno esoso. E crudele tre volte, perché i sussulti della terra sembrano voler spezzare la catena dell'appartenenza, intatta nonostante l'emigrazione secolare.

Gli Appennini sono sempre stati un posto da cui andarsene. Perfino le pecore a fine settembre partivano, e svernavano a valle. E gli uomini che non erano pastori, formaggiai, norcini o carbonai, che non si facevano preti o frati, partivano. Il confine (tra Stato Pontificio e Regno delle Due Sicilie) era un'ipotesi disegnata sui crinali — ma le montagne sono fatte per essere attraversate. Il mio bisnonno materno, Eugenio Bartoli di Visso, si mise in viaggio nel 1890: di cresta in cresta arrivò a Napoli. Fece il venditore ambulante di gelati, poi il cameriere. Vent'anni dopo, messo da parte qualche soldo, alla casa del padre tornò in villeggiatura, d'estate. E la figlia, mia prozia, ne comprò una più a monte, a Castelsantangelo sul Nera: dalle finestre vedeva le cime che il padre aveva dovuto valicare senza niente. E i nipoti di lei l'hanno tenuta, anche se ci andavano dieci giorni ad agosto.

Ed è per quella antica casa a torre, ormai fatiscente, ferita dalle crepe, che anche io ho ritrovato gli Appennini. Altrimenti forse non avrei mai scoperto le faggete dell'alta Valnerina, il crocifisso di Arquata del Tronto, gli altipiani di Castelluccio che a Fosco Maraini ricordavano il Tibet, e il silenzio magico del Pian Perduto sotto la neve. Non c'è quasi nessuno d'inverno, nei villaggi e nelle frazioni di pietra sbriciolati o scrollati dal terremoto. Qualche suora in remoti conventi che ospitavano dozzine di monache, o oggi appena due o tre, qualche giovane prete venuto dall'Africa nera, che impartisce più estreme unzioni che battesimi, gli anzianissimi — invalidi, smemorati — con le loro badanti rumene e ucraine, e le famiglie che mandano avanti, con fatica, le attività commerciali, i negozi necessari: gli alimentari, le macellerie, le farmacie, le pompe di benzina, i bar, le panetterie. Oggi si piangono troppi bambini, ma molte scuole di montagna hanno chiuso per mancanza di allievi. 

D'inverno ci sono più lupi che bambini, sugli Appennini dell'Italia centrale. E ci sono anche i pochi, coraggiosi, ritornati per restare. Quelli che hanno vissuto in metropoli, o all'estero, e hanno caparbiamente scelto di ricominciare daccapo, hanno aperto ristoranti, allevamenti, agriturismi e b&b, e hanno creduto di dare un'opportunità a se stessi, ai loro figli, alla periferia sconosciuta dell'Italia minore, che ci ha fatti come siamo.

L'identità è un fenomeno dinamico, e chi brandisce questa parola come una spada di solito ne abusa. Ma se esiste una specificità italiana, è la verticalità del rapporto tra le generazioni, più saldo rispetto al resto del mondo occidentale, che si traduce in una pendolarità geografica stagionale, localissima, a volte minuscola, ma, paradossalmente, davvero nazionale. Ricostruire case, ospedali, scuole, chiese e stalle è urgente. Anche per non lacerare il filo delle generazioni, e garantire la continuità del ritorno. In futuro, poi, si dovrà capire come far sì che questi Appennini orgogliosi e segreti diventino anche un luogo in cui si capiti per caso, o per scelta.


fonte: La Repubblica, Melania Mazzucco, scrittrice premio Strega, è autrice di romanzi e anche di saggi sul mondo dell'arte. I suoi libri sono pubblicati da Einaudi e Rizzoli

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