martedì 26 aprile 2011

L'opinione di un non credente




(ASCA) - Citta' del Vaticano, 20 aprile 2011 - ''Ho imparato da lui'': lo confessa, all'Osservatore Romano, un ammiratore 'atipico' di Giovanni Paolo II, l'ex-presidente della Camera Fausto Bertinotti.

L'apprezzamento del leader comunista per il Papa operaio non e' una novita'. Bertinotti e' stato criticato in questi giorni per la sua partecipazione ad un dibattito sulla figura di Karol Wojtyla con il card.Renato Raffaele Martino, con il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi,e col segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni.

Secondo Bertinotti, Wojtyla ''guardava l'altro come uno da cui imparare".

"Questa capacita' di sguardo ha promosso negli altri un atteggiamento di rispetto, attenzione e ascolto; e' questo, secondo me, che ha reso cosi' potente la presenza di questo pontefice nella storia''. ''A me - aggiunge - stupisce che su due questioni cruciali della crisi della civilta' occidentale, il lavoro e la coppia pace-guerra, questo Pontefice si sia pronunciato con le parole del futuro''.

Chiedete a bruciapelo a Fausto Bertinotti un flash su Wojtyla e ricorderà la ola al raduno della gioventù nel 2000. «Il gesto irrituale — spiega — mostrò che anche nelle più alte forme del potere può entrare la spontaneità e rivelò la sua straordinaria capacità di accettare la contaminazione dei linguaggi». Oggi alle 18 il presidente della Camera andrà in parrocchia a Trastevere, in via santa Dorotea, per presentare il libro «Pellegrino» (ed. Paoline), dedicato a Giovanni Paolo II dall'inviato principe dell'Osservatore Romano, padre Gianfranco Grieco, che lo ha seguito in tutti i suoi viaggi.

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Presidente Bertinotti, il suo bilancio di papa Wojtyla?
«Giovanni Paolo II è il Papa prima della paura. E' stato nel moderno, contrastandone gli aspetti che sentiva avversi alla sua religione, ma trasmettendo la convinzione di una vittoria sul campo. Il suo grande lascito è "Non abbiate paura!" e ciò permette a tutti il confronto indispensabile perché la religione sia lievito e non porti a rinchiudersi in nuove fortezze».

Il tratto distintivo del suo pontificato?
«L'essere messaggero di pace. Anche quando sembrò che il suo messaggio fosse impotente, si è visto quanto fu in grado di incidere sulle coscienze. Nel movimento per la pace, che arrivò ad una forza cosi considerevole da essere definito seconda potenza mondiale, c'è il suo segno».

Viaggiando per il mondo, Wojtyla intuì la globalizzazione. Che ruolo giocano le fedi nel pianeta unificato?
«Per un verso rappresentano la sottrazione al linguaggio unico, che la globalizzazione pretenderebbe fare scaturire dal mercato e dalla mercificazione. Dunque, un'affermazione forte dell'irriducibilità della persona umana al fatto economico. D'altro lato, oggi si affaccia il rischio dell'integralismo come risposta ai problemi del nostro tempo».

Le radici dell'integralismo?
«Il timore di sentirsi assediati e forse sconfitti dalla modernità, a meno di una separazione dei propri credenti dalle contaminazioni di questo mondo. Un fenomeno che, nei casi estremi, può arrivare persino a scendere in armi contro il mondo o le potenze che sembrano guidarlo e in larga parte lo guidano».

Papa Wojtyla e il suo successore hanno proclamato la presenza della fede nello spazio pubblico.
« In Italia non è una novità la presenza del fenomeno religioso nella costruzione della società civile. E' una constatazione di lungo periodo. Troverei, comunque, sbagliato e immotivato rifiutare alla religione di configurarsi nello spazio pubblico. Non si può pretendere di rinchiudere la fede in un fatto unicamente privato. Tutta la modernità mostra la contestualità del rapporto tra pubblico e privato. Non dice forse anche il femminismo che il personale è politico?».

Eppure si producono frizioni tra religione e società.
«Il problema, posto recentemente da parecchie espressioni religiose, è la rinascita di fenomeni integralisti, basati sulla paura. Con cui si crede di affermare che solo l'adesione a una fede consente di giungere alla verità, anche alla verità storicamente esistente, e contemporaneamente si pensa che da una cattedra religiosa possa venire un'indicazione alla politica di quale deve essere la strada giusta».

E' qui il pericolo?
«Non avremmo il riconoscimento necessario della presenza della religione nello spazio pubblico, bensì la nuova definizione di una gerarchia secondo cui la politica è minore rispetto ad altre cattedre. Sarebbe pericoloso, perché verrebbe meno l'autonomia della politica e della democrazia».

In questo quadro cosa significa laicità?
«Intanto un'eredità storica da non cancellare: la riaffermazione sistematica dell'autonomia dello Stato, che deve avere in sé le ragioni per legiferare e agire. Tutta la storia della separazione della sfera politica da quella religiosa, anche nel travaglio importante del cattolicesimo democratico in Italia oltre che delle forze non cattoliche, costituisce un elemento da preservare. Senza questo elemento basilare di laicità solo il peggio è ipotizzabile. Come non pensare che nel mondo contemporaneo di migranti una pretesa di ingerenza religiosa nello Stato determinerebbe inevitabilmente anche un conflitto religioso? La laicità è necessaria per ragioni di coesistenza».

Soltanto questo?
«Serve un passo in avanti. Passare dall'autonomia come rifiuto dell'ingerenza alla ricerca della convivenza tra diversi: è qui la nuova frontiera della laicità».

In Italia la convivenza ha un nome: rapporti con i musulmani. Costruire una moschea è diventato un problema.
«Potremmo discutere sui problemi prodotti dai fenomeni di immigrazione. Ma l'educazione alla convivenza è l'unica strada civile. Attingiamo alla grande tradizione mediterranea. Basterebbe accompagnare a Palermo i "resistenti" alla costruzione di un luogo di culto per l'Islam: quanta ricchezza, già nel profilo architettonico, di civiltà, culture, religioni».


Repubblica 29 novembre 2007, intervista di Marco Politi

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