martedì 20 settembre 2011

L'uomo dei capolavori: in ricordo di Walter Bonatti




Se n'è andato lottando fino all'ultimo secondo con la malattia, come tutta la vita aveva fatto: prima con le montagne, poi con le mille imprecisioni e talora falsità che lo volevano raccontare e incasellare. Una lotta ad armi pari, la seconda, le altre no.

Chi è stato Walter Bonatti? Il più grande alpinista della storia? Questo forse lo può decidere il "Signore delle cime" di una vecchia canzone delle vette. Lo si ripete a ogni addio d'un salitore di pareti. Si è giurato che lo fosse George Mallory, scomparso nel 1924 a un passo dalla cima dell'Everest. La rivista statunitense Rock and Ice ha sparato a giugno in copertina che Reinhold Messner è "the greatest climber of all time". Lo si è ripetuto per Riccardo Cassin due anni fa, quand'è morto centenario. Bonatti non avrebbe voluto essere ricordato per questo, anche se proprio Messner così lo ha salutato lo scorso maggio a Trento, quando sul palco del Filmfestival della montagna ha rievocato la tragedia del Pilier del Freney dell'agosto 1961  -  quattro morti per sfinimento nella fuga dalla tempesta  -  con i due protagonisti, Pierre Mazeaud e appunto Bonatti.

No, Walter è stato più di tutti gli altri un meraviglioso impasto di alpinismi, classico e moderno. Ogni sua via è un capolavoro disegnato sulla roccia dove l'arrampicata artificiale (la salita con l'aiuto di mezzi che non siano le mani e i piedi) è ridotta al minimo. Tanto che, sfogliando le guide soprattutto del Monte Bianco, dove lui ha realizzato le sue imprese più belle e importanti, è difficile trovare chi le abbia ripetute in maniera più "pulita", se non molti anni più tardi, quando le pedule morbide sostituiscono i rigidi scarponi in cuoio e i sistemi di allenamento rivoluzionano il mondo dell'alpinismo classico. E però lui è stato al tempo stesso il primo rappresentante dell'alpinismo moderno, un personaggio mediatico che quando scende dalle cime trova ad attenderlo il microfono Rai di Emilio Fede (sì, proprio lui, che allora si presentava come esperto di montagna).


Ogni ritorno a Courmayeur o a Chamonix è uno spettacolo di folla, la sua progressione sulla roccia è seguita passo passo dai giornali, dalla radio e dalla tv che sta nascendo. Con grandi incomprensioni, ogni volta, che lui non manca mai di sottolineare con la stessa veemenza con cui arrampica. I duelli con i giornalisti sono epici e non riguardano solo il dolore più grande della sua carriera, la ricostruzione inventata della salita al K2 stoppata dal capospedizione Desio, quel ruolo fondamentale avuto nella vittoria di Lacedelli e Compagnoni e poi negato sia nel racconto ufficiale, sia in molti articoli usciti nei mesi seguenti. Si batterà tutta la vita, per ristabilire la verità, e all'approssimarsi del cinquantesimo anniversario, celebrato nel 2004, ripubblica, quattro, cinque volte il pamphlet in cui sbugiarda tanti racconti di comodo. Chiede che il Cai metta il suo timbro su una storia definitiva della salita italiana alla seconda vetta del mondo, il giorno di Natale del 2004 restituisce addirittura l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al presidente Ciampi, offeso che la sua richiesta di verità non venga ascoltata. Otterrà l'onore delle armi solo nel 2007, con la stampa del libro "K2. Una storia finita", la relazione dei "tre saggi" nominati dal Club alpino (lo scrittore Fosco Maraini e gli storici Alberto Monticone e Luigi Zanzi) che gli danno ragione su tutti i punti contestati.

Ma la sua vena di polemista non è legata solo al K2. Ogni grande impresa porta con sé strascichi di discussioni. Gli si imputa di sopravvivere dove altri muoiono, come fosse una colpa avere un fisico perfetto e una capacità di concentrazione e sopportazione non comune. Diventa un affare internazionale la scomparsa sul Bianco di due alpinisti francesi, Jean Vincendon e François Henry, nei giorni di Natale del 1956, mentre lui e Silvano Gheser riescono a tornare a valle. Nel 1961 c'è chi addirittura chiede un processo, dopo la tragedia del Pilone Centrale, mentre in Francia gli consegnano la Legion d'Onore. E solo Dino Buzzati sul Corriere della Sera, in Italia, ne traccia un ritratto senza ombre.


Un personaggio sempre alla ribalta, il simbolo di un alpinismo nuovo che probabilmente solo Messner saprà poi incarnare alla stessa maniera. Pure nella capacità di reinventarsi scrittore e giornalista. Dopo l'addio alle ascensioni, con il magnifico itinerario in solitaria sulla parete nord del Cervino nel 1960, ancora a Natale, Bonatti intraprende una lunga carriera di inviato speciale nelle regioni selvagge del pianeta per il settimanale Epoca.

Ma molto lo distingue dal "re degli ottomila", al quale dedica il suo secondo libro. Bonatti ad esempio rifiuterà sempre il ruolo di testimonial pubblicitario, rifuggirà ogni sponsor nonostante per lui siano sempre pronti contratti d'oro. In questo simile ai grandi alpinisti britannici del secolo precedente, per i quali la montagna era una sfida sempre ad armi pari e "by fair means", con mezzi leali. Fino all'ultimo.

 
La Repubblica, Bizzarro, 14 settembre 2011
















Nessun commento:

Posta un commento