«A quel punto il segretario ha portato un microfono e Giovanni Paolo
II ha tentato di pronunciare alcune parole ma i suoni, forse tre, sono
rimasti incomprensibili… ». Straziano ancora, a rileggerle, le cronache
del calvario interminabile di papa Wojtyla.
E impongono una domanda:
quanto ha pesato, sulla decisione di Benedetto XVI, il ricordo di
quell’agonia infinita del suo predecessore? Dice oggi il cardinale di
Cracovia Stanislaw Dziwisz, per anni segretario personale del Papa
polacco, che il Pontefice di Wadowice volle restare fino alla fine
perché «riteneva che dalla croce non si scende».
Una frase così forte da
essere seguita dalla precisazione: nessuna critica, ci mancherebbe, a
papa Ratzinger. Proprio la rilettura dei giornali dell’epoca ci dice
però che l’allora cardinale tedesco fu tra i primi ad avanzare, sia pure
scartandola, l’ipotesi che Karol Wojtyla potesse fare la scelta da lui
fatta ieri. Era il 16 aprile 2002. Ne aveva già parlato, un paio di anni
prima, il nostro Alberto Melloni. Che si era tirato addosso la piccata
precisazione dell’Osservatore. Il quale chiedendo di cessare «tutto
questo ronzio attorno a tale tema», aveva eccepito che «debolezza fisica
comunque non vuol dire incapacità o “condizione di inabilità
irreversibile”».
Reazioni non meno infastidite, per quanto meno piccate,
avevano accolto il ritorno sul tema di Vittorio Messori. Il quale aveva
scritto: «Mentre avanza la malattia (come da implacabile scadenzario
previsto da un consulto di medici), si rincorrono le voci sulla
possibile applicazione del secondo comma del canone 332 del Codice della
Chiesa. È l’articolo che regola la “rinuncia del Romano Pontefice al
suo ufficio”: libera rinuncia, non dimissioni, ché il Papa non ha
“superiori”, su questa terra, cui presentarle ».
Diceva dunque
quell’Ansa della primavera 2002: «Giovanni Paolo II avrebbe il coraggio
di dimettersi nel caso le sue condizioni di salute non gli consentissero
più di essere alla guida della Chiesa cattolica. Se ne sono detti
convinti due cardinali di primo piano: l’arcivescovo di Tegucigalpa,
Óscar Rodríguez Maradiaga e il Prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger». Il cardinale bavarese aveva
espresso la sua opinione in una intervista al settimanale
dell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga: «Se il Papa vedesse di non poter
assolutamente farcela più allora sicuramente si dimetterebbe ». Aveva
però sottolineato: «Finché gli costerà soltanto sofferenza, terrà duro».
Una tesi che avrebbe confermato alla vigilia della morte del Pontefice.
In una intervista a Vespa per uno speciale su Raiuno intitolato «Il
Calvario del Papa». Un calvario durato anni. Sopravvissuto alle
pallottole che gli aveva sparato Alì Agca il 13 maggio del 1981,
l’«Atleta di Dio» diventato Papa a 58 anni, cominciò ad avvertire i
primi sintomi del morbo di Parkinson (tremori alle mani, movimenti
lenti…) già nel 1992. L’anno in cui, a luglio, fu obbligato a sottoporsi
anche all’asportazione di un tumore benigno all’intestino. Nel novembre
1993, scivolando nell’Aula delle Benedizioni, si lussava la spalla
destra. Cinque mesi dopo cadeva in bagno fratturandosi il collo femorale
destro. L’anno successivo, la notte di Natale, stando alla
ricostruzione del suo portavoce Joaquín Navarro-Valls, il freddo gelido
dei corridoi percorsi per tornare al suo appartamento dopo il gran caldo
alla messa di mezzanotte, gli diede una mazzata. Al punto di fargli
troncare, per un malore, la tradizionale benedizione natalizia. Il Papa,
si legge in un’agenzia di quel giorno, «ha interrotto inaspettatamente
la lettura degli auguri in diverse lingue del mondo, che aveva appena
cominciato dalla finestra del suo studio privato dinanzi ai fedeli in
Piazza San Pietro, dopo aver tratto un profondo respiro, appena conclusa
la lettura di dieci minuti del messaggio natalizio al mondo. Egli ha
sospeso per qualche istante la lettura dei fogli che aveva con sé, alla
finestra del suo studio privato, al terzo piano del palazzo apostolico,
quando gli si è avvicinato il suo segretario privato che gli ha detto
qualche parola, vedendolo in difficoltà. Il Pontefice, dopo essersi
schiarita la voce, ha detto soltanto: ”Scusate, devo interrompere”».
L’anno dopo, a 76 anni compiuti, doveva operarsi di nuovo:
appendicectomia. Niente di grave, per un giovanotto. Ma lui era già
stanco, ammaccato, sotto attacco del Parkinson. Sempre più sofferente,
sempre più in difficoltà fisiche… Il mondo intero si accorse del
dolorosissimo degrado nel settembre 2003, quando il Papa a Bratislava,
sceso dall’aereo grazie alla scala meccanica e subito fatto accomodare
su una sedia a rotelle spinta dai collaboratori, andò in crisi poco dopo
avere cominciato a parlare davanti al presidente Rudolf Schuster: «La
voce debole e l’affanno nel respiro che lo costringevano a lunghe pause,
le parole scandite lentamente e poi la rinuncia a pronunciare per
intero il discorso di saluto alle autorità e al Paese tutto. È
cominciato così il viaggio in Slovacchia di quello che agli inizi del
pontificato veniva chiamato l’atleta di Dio…» Da allora, sempre peggio.
Ricoveri. Controlli. Udienze annullate. E gli sforzi tenaci del Papa
deciso a resistere, resistere, resistere.
Il resoconto del Corriere del
22 novembre del 2004, firmato da Luigi Accattoli, mette il magone: «Il
Papa sta salutando la folla, a mezzogiorno, quando un colpo di tosse lo
fa sobbalzare di brutto sulla sedia e quasi gli impedisce di continuare.
Prova a tossire di nuovo, per schiarire la voce, ma non gli riesce. La
folla batte le mani per incoraggiarlo. Riprende con la voce a tratti
roca e a tratti velata. Si ferma ancora e dice qualcosa a bassa voce a
chi gli è intorno, che gli offre un bicchiere d’acqua. Tre volte il Papa
si ferma e tre volte riparte con l’incoraggiamento della folla,ma
sempre con la voce tormentata…». Il 2005 fu una lunga e impietosa
descrizione di una Via Crucis di diagnosi, referti, prognosi… Era messo
così male, il vecchio Papa stanco, che capitava di leggere addirittura
in prima pagina sui giornali notizie come questa: «Giovanni Paolo II ha
bevuto un po’ d’acqua». Durante uno dei ricoveri, Fabrizio Roncone
scriveva: «La tosse, purtroppo, lo tormenta ancora. Il suo respiro è
lento. La voce, fioca». Ai primi di febbraio, per la prima volta nella
storia, il fedelissimo portavoce spagnolo fu costretto addirittura a
intervenire per smentire che il Papa, ormai impossibilitato a parlare,
avesse tenuto il suo discorso, peraltro brevissimo, in playback:
«Naturalmente le parole del Santo Padre nella benedizione di questa
mattina le ha pronunciate nello stesso momento in cui le abbiamo
ascoltate in diretta». Fatto sta che in molti, compreso il nostro
vaticanista, restò quel dubbio atroce: «In televisione non è stato
possibile vedere il movimento della bocca del Papa mentre pronunciava la
benedizione, dato che uno dei due segretari, don Mietek, teneva un
foglio davanti al volto del Papa. Chi ha rivisto alla moviola il filmato
sostiene di aver avvertito la partenza di una registrazione e fa
l’ipotesi che si trattasse di una registrazione solo vocale della
benedizione, che sarebbe partita accidentalmente, o che incidentalmente
sia stata interrotta…».
Finché, dopo l’intervento di tracheotomia per
permettergli di respirare, le agenzie si spinsero a diffondere dispacci
di questo tenore: «Papa: grazie ad un “tappino” su cannula potrebbe
parlare». E poiché non parlava, un cardinale spiegò ai giornali che «il
potere di giurisdizione può essere esercitato anche con altre modalità
di comunicazione che non sia la parola». Uno strazio. Col mondo
aggrappato ai tiggì che leggevano notizie così: «Il Papa si alimenta
regolarmente, trascorre qualche ora in poltrona e ha iniziato gli
esercizi per aiutare la respirazione e il linguaggio». E il Primate
d’Inghilterra, Cormac Murphy- O’Conner, che in visita all’ospedale
Gemelli dichiarava: «Non sappiamo come sarà in futuro, se potrà parlare o
meno. Però credo che per tutto questo si debba aspettare le decisioni
del Signore…». E avanti così, per settimane e settimane. Appesi ai
bollettini: «Le difficoltà di respirazione e di parola manifestate oggi
sono sostanzialmente dovute alla malattia di Parkinson; l’evoluzione
porta ad una diminuzione dell’attività dei muscoli che fanno espandere
il torace, e a volte si manifestano anche contratture (testa piegata da
un lato)…». E tutti a chiedersi, per la Pasqua in arrivo: «Il Papa
riuscirà a parlare in maniera soddisfacente mantenendo la cannula che
gli è stata inserita con la tracheotomia? Al momento non si sa. Solo
ieri ha iniziato gli esercizi per reimparare a parlare spingendo il
fiato attraverso la cannula…».
Finché arrivò il momento in cui,
affacciato alla finestra fra un bambino e una bambina, al Pontefice non
restò altra forma di comunicazione che uno strano sorriso storto e
sofferente quando la colomba si levò in volo ma non voleva saperne di
andarsene via libera nel cielo. Il 27 marzo 2005, l’Ansa lo descrisse
così: «Il Papa convalescente non ha mancato l’appuntamento con i fedeli
nel giorno di Pasqua, ma nonostante gli sforzi non è riuscito a
pronunciare le poche parole della benedizione in latino. Si è affacciato
alla finestra del suo studio, ha articolato qualcosa nel microfono ma
non si è percepito che un mormorio confuso. La scena, drammatica,
seguita attraverso 104 televisioni in 84 Paesi del mondo…». Tre giorni
prima, Joseph Ratzinger aveva detto: «Giovanni Paolo II mi sembra
consapevole di avere una responsabilità unica che gli è stata data dal
Signore e che solo il Signore può ritirare». L’immagine di quell’anziano
e amatissimo Pontefice che la malattia aveva derubato della parola,
però, lo segnò forse per sempre.
G.A. Stella, Corriere della Sera, "Il Calvario di Wojtyla che segnò Ratzinger", 12 febbraio 2013
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