domenica 11 agosto 2013

Sul Pasubio



CEROGLIE (Carso) - No, non parto ancora. C’è sempre tempo per il sangue e la trincea. Tempo per i barellieri, i reticolati e lamenti. Ho sentito che in prima linea fanno arrivare brandy e cioccolata per scaldare gli animi prima degli assalti, e così i fanti sanno in anticipo cosa si prepara. Hanno rovinato anche il gusto della vita. Ma ora non voglio pensarci. Il sacco è preparato, e voglio passare l’ultima sera con amici, a cantare. In una taverna di retrovia, sul Carso.

«Era una notte che pioveva / e che tirava un forte vento / immaginativi che grande tormento / per un alpino che sta a vegliar ». Da noi a Trieste si canta ancora nelle osterie. Ci si ritrova e si canta, senza nemmeno chiedersi “come va”. E siccome siamo un po’ matti per via della bora, cambiamo anche lingua senza imbarazzi. Con le canzoni di guerra è tutto un saltare di qua e di là del fronte. E quando diciamo “i nostri”, non sappiamo nemmeno noi a chi alludiamo: se ai tanti nonni reclutati dall’Imperatore o ai bersaglieri giunti a “redimerci” nel ‘18. Vanno bene tutti e due.

Tuona cupo oltre il monte Hermada, ultimo scoglio prima delle linee italiane, ma noi ce ne fottiamo e attacchiamo con le marcette burlesche, in dialetto triestino, dei battaglioni targati Asburgo. Una coppia di piemontesi nel tavolo accanto si meraviglia che non siano in tedesco, e allora devo spiegare che furono migliaia gli adriatici di lingua italiana chiamati a servire la bandiera giallonera.

«Qua se magna, qua se bevi / qua se lava, qua se lava la gamela / zigaremo demoghèla fin che l’ultimo sarà / fin che l’ultimo sarà». È un coro di veterani. Franco, Silvano, Stellio, Piero. Compagni di bevute o di salite in Dolomiti. Nereo dirige, rigido come un Kapellmeister, e loro godono di queste strofe senza mamme, senza fidanzate o lamenti per la casa lontana. Un altro mondo rispetto a “Una notte che pioveva” o il “Testamento del capitano”.


Vorrei spiegarlo, ai forestieri, quanto siamo complicati. Dire che questa non è una cantata ma una tempesta identitaria. Vorrei ma non posso. Dovrei declinare troppe generalità. Dire che sono figlio di un ufficiale-gentiluomo dell’esercito italiano, che sono cresciuto in mezzo a irredentisti e nostalgie per l’Istria perduta. Spiegare che sono garibaldino dentro, che ho girato l’Italia in camicia rossa e so mettermi nella scarpe di chi vide nell’impero asburgico una prigione dei popoli. Eppure...

Eppure non è colpa mia se dopo fu peggio, se vennero il fascismo, l’imperialismo,la negazione delle lingue altrui, l’estetica della morte e infinite altre sciagure. Non è colpa mia se fino al ‘14 da qui si andava in treno in mezza Europa e oggi non si va da nessuna parte. No, non dipende solo da noi di frontiera se Trieste, dopo quella guerra, ha conosciuto solo decadenza.

«Kaj ti je deklica, da si tak zalostna / Cos’hai ragazzina, perché sei così triste / Che cos’ho? Nulla. Ho male al cuore / il mio ragazzo è caduto in guerra». Martina canta un assolo straziante. Le canzoni slovene svelano tristezze abissali, stratificazioni di lutti. “Oh Doberdò, tomba della gioventù”, cantano slavi e magiari di un lago che fu mattatoio dietro il monte. Pezzi di storia negata erompono come un fiume carsico, con enorme ritardo sul Trentino. Sull’Adige sono anni che si preparano al 2014, e non hanno paura a dire che non esiste solo Battisti, ma anche migliaia di Caduti trentini di parte avversa sul fronte russo o nei Balcani.

«Quando fui sui monti Scarpazi / miserere sentivo cantar / ti ho cercato tra il vento e i crepazi / ma una croce soltanto ho trovà». In Trentino si cantano da tempo canzoni “austriache” come questa, che fu proibita dal Fascio. A Trieste è diverso, c’è stata la guerra fredda e il teorema della città “italianissima” è durato più a lungo perché si doveva fronteggiare l’Impero del Male. “Gorizia tu sei maledetta” rimase sacrilega fino agli anni Sessanta. Ma ora la diga si rompe, e rischia di rompersi anche male, per accumulo di troppe rimozioni e un disincanto per l’Italia che pare fatto apposta per alimentare deliri austriacanti o sterili indipendentismi.

«E il general Cadorna / ha detto alla regina / sei vuoi veder Trieste / guardala in cartolina / bim bum bam / e il rombo del canon». Arrivano piatti di olive e formaggio, e intanto un fulmine percorre la dorsale del monte Terstelj, dove il generale Borojevic comandava il tiro delle artiglierie. La notte pirotecnica illumina una guerra sconosciuta, rovescia verità assodate. Caporetto, per esempio, vissuta come vittoria. E allora qualcosa ti dice: ragazzo, prima di andare al fronte devi scavare, grattare sotto la toponomastica, l’elenco telefonico, la retorica, le fanfare. Non è un caso che questa terra abbia generato tanti psichiatri e speleologi. Qui ogni grotta è anche un abisso della mente.

Spiego ai piemontesi che nel Ventennio ci hanno cambiato i cognomi — dietro a Fabbri c’è Kovac, Sbaizero è Schweizer, e Cosolini Koslovic — ed è logico che noi si faccia più fatica di altri a sapere chi siamo. È chiaro che mai come stavolta il viaggio è anche interiore, nei reticolati dell’anima. Ma alla malora le complicazioni, adesso si canti e si beva, perché «l’acqua è fatta pei perversi / e il diluvio il dimostrò ». Sì, forse il vino e il canto sono il solo possibile amalgama di tutto questo.

«Su la strada del Monte Pasubio / lenta sale una lunga colonna / bomborombon bom bomborombon / l’è la marcia de chi non torna / de chi se ferma a morir lassù».
Basta un’occhiata fra noi, un gesto, e parte l’ultima canzone. Lenta, cadenzata. Chiama a raccolta i vivi e i morti. Enzo, caduto in Civetta. Virgilio, amico dell’anima, imbattibilesulsestogrado, cheguidavailcorocolsololampo degli occhi. Rivedo le penne nere uscire dalla caserma di Tarvisio conimuli.Nesentol’odore.Alpini miei, quanto mi parlava di voi mio padre mentre salivamo, sci in spalla, sulle nevi immacolate del Monte Canino. Sella Prevala, Rombon. Rocce di leggenda, vengo presto a ritrovarvi.


fonte: Paolo Rumiz, La Repubblica

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