sabato 4 gennaio 2014

2014: un buon inizio con la poesia di Roberta Dapunt





È cammino casto il ritorno dal Fanes,

zoccolo che pesta lento ogni fine di estate.

E così siamo soli nell’ampio paesaggio,

ci facciamo villani dai riservati silenzi,

accordati alle mucche per rispetto

verso il loro sentiero saputo.



Io guardo commossa e sono fortunata persona,

ma se solo potesse l’anima

stare nel tondo ventre di vacca,

come a settembre un vitello al ritorno.

Con la quiete rivolta in avanti,

senza sapere per dove ma sicura di un approdo,

cullata e nel caldo, verso un fieno tagliato di nuovo

ogni qualvolta finisce l’erba



da:  La terra più del paradiso, 2008




“In questo buio compatto è perpetuo novembre.
Sei tu Dio? Onnipresente sconosciuto.
Perché io so che tu sei,
lo sanno i miei sensi
quando tornano dalla stalla.”

C’è Dio, nel cuore della poetica di Roberta Dapunt.
Dio o la sua assenza, la reticenza a farsi trovare quando è cercato.
Comunque Dio, poiché affermarne o negarne l’esistenza - e l’immanenza nel mondo sensibile - conduce allo stesso risultato. La parola crea, evoca, rende reale. Per tutto il tempo in cui parliamo e scriviamo di qualcosa, questo qualcosa esiste, e magari riempie un vuoto dell’anima. Ma è solo un palliativo:


“Divina solitudine sulla mia parete,
cederei la penna per un solo giorno di fede.”


Spesso Roberta Dapunt parla di Dio con nostalgia, nel senso letterale della parola: il mal di ritorno, quello dell’esule, di chi è lontano da una dolcezza sperimentata e persa, di chi Dio l’ha stretto nell’anima – un tempo – e adesso non è più capace di farlo.
Rimpianto per l’infanzia, in cui il candore permette fede ingenua, e devozione di rosari e inginocchiatoi, di mani giunte e ostie accolte come salvazione.


“Sgonfiami di dosso l’insolenza
e l’orgoglio di essere cresciuta.
Ora che le mie mani non si alzano più nel cielo,
come un bimbo nel suo unico tempo
in cerca di amore e di un abbraccio.
Ora che i piedi abitano fermi il suolo
è estenuante l’attesa del paradiso.”


Solo chi crede, o ha creduto, percepisce con tanto dolore il sopraggiungere del silenzio di Dio, il sentirsi abbandonato sulla croce, la latitanza della fede. A tale sconforto, Roberta Dapunt cerca conforto. Nella poesia, a riprova della fede nel Logos:

“Scrivo per vivere meglio le abitudini della mente.
Ripeto a voce i versi e li riscrivo
nel buio pesto e ad occhi chiusi,
finchè in essi rimane l’anima soltanto
e mi sorprendo le rare volte,
che essa mi si presenta sul quaderno
invitandomi a un sorriso per un attimo contento.”


nel contatto con la natura, con i suoi ritmi e le stagioni, con le mansioni a essi legate che si fanno preghiera e liturgia delle ore:

“Curo i prati come il pavimento della mia casa”
“Il messale che conosco è un ricovero di vacche,
una greppia da riempire, il suono umile del fieno
in bocca a chi sa ruminare.”


Nella semplicità della vita di montagna, nei riti del paese in cui risiede, negli incontri con persone consuete a una religiosità tradizionale, che tuttavia sembra renderle felici e appagate intimamente:

“Insegnami la metà delle tue orazioni uma*,
quelle che ignota è la loro grazia.
Insegnami ad aspirare alla metà del tuo traguardo,
quel paradiso sicuro che ti fa stare così bene.
Insegnami la tua anima innamorata,
quella che non sai spiegare, per umiltà uma.”

(Uma: madre in ladino)


Nell’isolamento, nella riaffermazione della sacralità del dolore, e di come il dolore stesso – anche quello estremo, che conduce alla morte – renda chi lo sperimenta in qualche modo puro e libero: il paradosso della croce, l’annientamento del sé che riscatta e trasforma l’uomo in dio. Questo, almeno, un credo di certezze.

Credo nella gloria dei vinti.
Credo nelle loro carni piegate sotto le macerie,
i loro respiri cessati.
Credo nelle distese di orti trasformati,
...
Credo nei miserabili che annegano alle porte d'Italia.
Credo in quelli che rimangono e il giorno dopo chiamiamo clandestini.
Credo nelle loro bambine vendute ai nostri piaceri
...

Una sofferenza sincera nella poesia di Roberta Dapunt, espressa in versi liberi, soliloquio che somiglia, a tratti, a una preghiera nel suo assumere connotati quasi liturgici, con antifone che introducono al senso della strofa a seguire, un’inquietudine che si traduce spesso nell’interpretazione dei fenomeni naturali come un prolungamento o un’antitesi del sé.
“Perché solo è il corpo ad amare più la terra del paradiso.”
 
 
fonte: Silvia Longo per http://niederngasse.it


Sono pochissime le voci letterarie altoatesine capaci di essere ascoltate fuori dalla terra di origine. Pochissimi gli autori locali pubblicati da grandi case editrici nazionali, siano esse italiane o tedesche. Con la sua seconda raccolta di poesie (nel 2008 era già uscito, sempre presso Einaudi, La terra più del paradiso), Roberta Dapunt conferma questo suo ruolo privilegiato, assolutamente meritato, e regala ai lettori un intenso documento della sua arte. Il libro s’intitola Le beatitudini della malattia, e l’ossimoro circoscrive e sintetizza il rapporto, metabolizzato in parole, del quale la Dapunt ha fatto esperienza a contatto con due congiunti affetti da demenza senile.

Le beatiduni della malattia
Il titolo è evangelico. È infatti dal Vangelo di Matteo che apprendiamo come la via alla santità passi attraverso un preliminare “abbassamento” o “svuotamento” della condizione umana. La parola chiave, qui, è Kenosis, che significa proprio “vacuità”, “farsi cavo”. Scrive Paolo di Tarso nella Lettera ai Filippesi: “Cristo spogliò se stesso”. Siamo al cuore della teologia cristiana: per assicurare il passaggio alla dimensione divina dell’uomo, Dio svuota se stesso incarnandosi e, nella figura di un chiasmo, la somiglianza tra creatore e creatura diventa perfezione di un assoluto che, morendo, dona la vita eterna ai morenti. Il cosiddetto “Discorso della Montagna”, riportato da Matteo, è una volgarizzazione di questo nucleo teologico. “Beatitudini della malattia” potrebbe essere intesa come una formula che schiude all’ermeneutica poetica della frase “Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. Ma così come ogni ermeneutica è per principio inesauribile, anche i versi di Roberta Dapunt non si esauriscono nell’esplicitazione di un contenuto teologico. E neppure aderiscono senza residui al tema della demenza senile dal quale, pure, sono mossi.


La poesia compagna della vita
Prima di leggere alcune poesie, Roberta Dapunt ha fornito una straordinaria dichiarazione di poetica: “Ho parlato della beatitudine come stato perfetto della mente del malato. Ho cercato di compiere un percorso di osservazione, di memoria e di considerazione lungo il sentiero stretto della cura. La poesia mi dà sempre la possibilità di raccontare in forma stretta la vita, e io parlo sempre da qui. La malattia mi era compagna nella vita”. Compagna di vita, la malattia. Sentinella di morte, la poesia. Il dialogo che chi cura instaura col malato, con un malato che “non risponde”, scarnifica il dettato poetico e lo rende simile a un “immacolare” (“Voglio immacolarmi. Per sempre zittire, interrompermi e tacere”, dell’infeconda voce), a una terra innevata sulla quale si stagliano le parole più essenziali. Ed è dallo sforzo di udire l’altro, l’altro che è diventato, nella malattia, compiutamente “altro” (ecco la demenza, questo diventare altro da sé, irriconoscibilità senza più confini) che alla fine, anche se “il marzo alpino” non è rallegrato da alcun fiore, anche se “l’inverno per me rimaneva lì anche dopo la messa”, può germogliare qualcosa “oltre la Pasqua” (litania delle ricordanze): la parola poetica, resto della vita.


L’officina della poesia
Anche litania è una parola chiave per penetrare nell’officina della poesia di Roberta Dapunt: “Mi piace la parola officina. Generalmente si parla di officina a proposito del lavoro di mio marito (lo sculture Lois Anvidalfarei, ndr). Nella mia officina io ripeto un verso continuamente ad alta voce, scrivo ad alta voce. Scrivo e riscrivo sempre tutto da capo, così nascono delle litanie che mi creo nella memoria, finché ho la possibilità di sentire la voce della poesia. Quello che voglio, alla fine, è dire qualcosa con un buon suono, questa è la mia officina”. Inevitabile, a questo proposito, convocare un’altra stazione evangelica, cioè quella relativa al miracolo dell’annunciazione. Visitata e toccata dalla parola dell’angelo, Maria si abbassa, umilissima, e si “fa cava” per accogliere il seme divino. “La poesia è in tutte le cose, c’è poesia anche se io non la scrivessi”, ha detto a un certo punto Roberta Dapunt. Il lavoro poetico, dunque, sembra acquisire il proprio status specifico intercettando il punto focale del tempo (dato cioè dal vivere qui e ora) per farne un frammento lucente di mondo. Ed è proprio questa luce di mondo, barbaglio nel suono cercato, a rischiarare il lettore.


Autenticità, semplicità, dignità
Non saprei dire se sono particolarmente affezionata a una parola, però – ora che ci penso – una parola c’è. È una parola che si è insinuata in ogni pausa di verso: la parola dignità. La dignità è il basamento per la cura di questa malattia, senza la dignità – sia dalla parte di chi cura che dalla parte del malato –, senza questo basamento non è possibile avere a che fare con questa malattia”. Roberta Dapunt esprime con estremo pudore il concetto di dignità. Ma anche con estrema risolutezza. E quando parla di “basamento” vuol dire che la sua è una poesia che nasce da un’ispirazione elementare, autentica. Tuttavia, tanto più autentica quanto più lontana da quel Jargon der Eigentlichkeit che potrebbe far pensare a un repertorio d’immagini stilizzabili, alle quali sarebbe insomma facile accostarsi per arraffarne il segreto. La dignità – ci dice il vocabolario – è un sentimento che proviene dal considerare importante il proprio valore morale, la propria onorabilità, e di ritenere importante tutelarne la salvaguardia e la conservazione. In un tempo di parole sprecate, di parole svuotate, il rischio è quello di non udire più la parola sofferta del poeta e quella muta del malato. Per questo il dialogo che si compie e si legge nelle pagine de Le beatitudini della malattia è di quelli imprescindibili e rari.


fonte:  www.salto.bz



Che mi sia consentito dire: le beatitudini della malattia,

poiché nella mente hai raggiunto la condizione perfetta

dei ricordi che non hanno più occhi e non si guardano

indietro.

Davanti a me ci sei tu, il tavolo di sempre e la sedia.

E il giorno che guardi fuori dalla finestra.

È configurazione proporzionata la vostra.

di una distanza ormai sicura.



Non guardarmi mentre mangi, non alzare lo sguardo,
potresti incontrare il mio giudizio e approvarlo.



A chi pensa che io non sia di oggi,
io dico che il mio stare ad ascoltarlo è oggi.
Non è ieri, non sarà domani la mia attenzione,
bensì oggi. Oggi sono e sto qui davanti al foglio di carta,
sente forte il graffio di ogni mia parola.
Che da esse parte l’intimità quotidiana del mio corpo,
il suo nudo guardarmi è aderenza indubitale alla realtà.
Da lui soltanto la mia vista, da lui il mio udito,
nelle sue mani l’umido nero degli orti in questo luogo
e sotto i piedi il fruscio verde e nel dicembre
il freddo a mostrare chiare le stelle.


Dunque, so di non errare. Non mi perdo,
finchè posso tenermi forte a questo.



Nelle mani a volte il tuo corpo,
corolla appassita tra le guance e l’estremo delle dita.
Mai più l’adolescente primavera,
sussurriamo: mai fu tanto abbracciata la vita.
Eppure non invecchia la solitudine
e di nuovo la neve.



In nessun tempo le nostre verità,
quella tua di non riconoscere. Mai nessuna mancanza.
Questa mia di non riuscire a respingere la tua evidenza.


Su questo corpo scrivo
versi per quaranta giorni.
La tua passione, il mio credo,
posti come al sole in luogo di carne.
E sarà come sempre di venerdì
la tua morte in silenzioso pianto.
Niente impedirà la tua resurrezione,
aspetto di già il tuo ritorno.


Viene il gesto in fine della sera,
accompagna le mani e un’esile treccia e si scioglie.
L’ovvio movimento rende ancor più inseparabile la notte,
il disincanto negli occhi e la tua bocca dalle pieghe indifferenti
sfiorano ogni realtà, che insieme nascondiamo
ormai tra gli anni della tua dimenticanza.


Non serve sapere dei giorni,
non competono gli entusiasmi, non gli avvilimenti
col tuo corpo.


Oltre solo tu, il tuo stare accordato col tempo.
Come un’opportunità lungamente siedi
in grembo alla tua vecchiaia. È il tuo vivere
composto sulla sedia a passare le ore,
che da esse ogni tanto ti alzi a guardare dalla finestra.


Ti sei mai chiesta se dove finisce la neve,
crescono erbe più contente?


E ritorni ad appoggiare la tua senilità,
ad avvolgere con ordine un tovagliolo di carta,
hai dieci dita Uma ad accostare un capo al capo opposto, più volte.
Più volte il solo tovagliolo di carta.
Ed è sera di nuovo, qui lungo il tramonto.



E ti ascolto,
in questo disperdersi il tempo cantare.
E tu canti ormai taciuti canti alla morte
e ogni volta, come fossero nuovi, non ricordi le ultime strofe.
Eppure chiami, armonizzando, il cielo tra le sorde pareti.
Misterioso dialogare il tuo.



Il freddo corridoio e le corone di fiori,
odore di estati messe a seccare.
Chiamami quando avrai finito di lavarti.
Ti vestirò le calze, ho posto le pantofole ad aspettare
i tuoi piedi dalle dita intrecciate.


Nella stalla di Ciaminades le mucche ruminano i prati estivi, le erbe e i fiori falciati che il silente ronzio e l’ascetico cammino verso il prosciugamento hanno trasformato in fieno. Buio al mattino quando la stalla viene aperta, buio a sera alla chiusura. L’orto ha concluso il suo tempo di mescolanza di sinergiche e poetiche consociazioni tra utile e bello, rape e calendule, fiordalisi e sedano, rose e lamponi. Molte essenze sono state raccolte al tempo giusto e poste a seccare per le tisane. «Tutto è qui nella riservatezza rurale che ripeto / mattina e sera, spesso unico sentiero / che pesto come a passeggio verso casa». Per Roberta Dapunt il maso di Ciaminades, in alta Val Badia, è luogo di vita e laboratorio di poesia, radicato e comunitario eremitaggio, largo orizzonte dello sguardo al richiamo del mondo e meta di costante ritorno. Recenti le letture di poesia in Germania, dove il suo libro Nauz (Folio, 2012), scritto in ladino e tradotto in tedesco, è stato nominato tra gli undici libri più importanti del 2013 in ambito germanofono dall’Accademia tedesca per la lingua e la letteratura e dal Lyrik Kabinett.
Una scelta di ruralità quella di Roberta Dapunt, che ha deciso di condividere con la famiglia il maso ereditato dal marito Lois Anvidalfarei. L’indivisibilità della proprietà agricola attraverso la costituzione del “maso chiuso” con il passaggio ereditario a un unico figlio, sancita da Maria Teresa d’Austria nel 1775, è stata riconfermata dalla legge del 2001 della provincia autonoma di Bolzano, che pur rivedendone alcuni aspetti ha mantenuto saldo lo spirito dell’istituto giuridico, uno dei valori tradizionali della millenaria cultura ladina, grazie al quale sono stati garantiti il rispetto del territorio e l’identità della vocazione agricola della Regione. Una scelta soprattutto in nome di un ideale, quello di dare continuità e linfa vitale alla tradizione rurale e alla vita della montagna attraverso il ciclo degli animali e degli alpeggi.
In nome di un rigore, quello di non sottrarsi all’impegno morale e materiale che erba dopo erba, fieno dopo fieno, letame dopo letame ha dato un senso profondo, garantendo la sopravvivenza, a secoli di generazioni in una terra di confine. Il rigore è il solco della vita quotidiana che lega terra e stagioni, poesia e silenzio, e che lungo i secoli ha intriso le pareti della stüa (in tedesco Stube: è una stanza completamente rivestita in legno) di rituali religiosi, la lunga litania delle avemarie alla fine del pranzo, ogni giorno, mai interrotte, mai interrogate. In quest’esperienza è la genesi della poesia della Dapunt, confluita nella prima raccolta La terra più del paradiso (Einaudi, 2009) dove i riti della ruralità intrecciandosi alle cadenze della fede creano un ritmo poetico orante, preghiera come eco che riemerge dalla memoria illuminata dalla fascinazione.
Costanza Lunardi, Il respiro dei monti nei versi della Dapunt, Luoghi dell'Infinito




 L'amo così, profumata di ultime erbe incolte,
respinte per indifferenza sulle chine contorte,
difficile comprendere il silenzioso novembre e i luoghi,
che ogni anno di più reclamano il fischio sommesso della falce
e una verde urgenza servita a niente.

Io ti parlo da semplice condizione,
senza narrazioni sacre di avvenimenti,
senza i racconti in dottrine di imprese e di gesta,
senza le origini di dei e di eroi.
Riservato campo il mio, in cerca solamente di zitte presenze
e del comune esistere, poichè il tempo
in questo luogo è morsa di accadimento sempre uguale.

Casa mia è il maso, dentro il quale fluiscono anni e coscienza,
cadenza che non chiede il permesso di denunciare
ad ogni sguardo, in ogni angolo il suo passato,
epifania presuntuosa di generazioni avvenute.
Misurata vita la nostra, durata giusta che ha da spartire i mesi
tra i pochi fieni raccolti al sole e il loro fruscio ruminato al buio.
Il resto, passante, è silenzioso rimanere quando il tuo è ritorno.

L'amo così, lungo il colmo di abeti in pastura di quiete,
quando si fanno orlo i freddi campi e le nutrite nubi
e si leva una conversazione muta tra la libertà e misericordia.
E' congiuntura, che accade una volta soltanto dentro l'anno,
chi torna da greppie riempite lo sa
e sa che il momento prima della neve ha un odore.

Ma soprattutto l'amo nella misura di chi sa scernere un'erba dall'altra
e condividere due silenzi di dovere, differenti
soltanto per un gesto tracciato da un segno di croce.
Civiltà contadina  contata ormai in poche mani,
mentalità imprenscindibile, semente nostra  da salvare,
possidente di manualità che non conosce il giorno di riposo
e tiene il merito a fronte alta di abitare la montagna.

E dunque, espondo in questi versi, a te che passi un punto di vista,
che una stalla non è il volto della modestia,
bensì il tornaconto dei concimi versati.
E' traccia immutabile di rinnovamento,
il beneficio di un vivere consueto lasciato in abbandono dai tanti.
Ciò che conosciamo da sempre ora ci succede di riconoscere soltanto.



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