sabato 31 maggio 2014

In montagna per scavare dentro il suono

Mario Brunello
 Il celebre violoncellista racconta in un libro la sua antica ossessione per il rumore e il suo modo dI perdersi sulle montagne e nei deserti. Solo? no, sempre accompagnato dal suo strumento.

Il silenzio per Mario Brunello è un'ossessione. Lo insegue da anni col suo violoncello, sui palchi dei teatri del mondo intero, sulle vette alpine, in mezzo al deserto africano, tra i capannoni industriali. Lo cerca tra le note e dietro le note, negli spazi del pentagramma, lo cerca nel momento in cui avvicina l'archetto al suo strumento mentre il pubblico tace e quando lo stacca alla fine dell'esecuzione.

In un'epoca assordante come la nostra, che un musicista votato a riempire gli spazi silenziosi scriva un libro sul silenzio è certamente una stranezza, ma Brunello è un uomo di passioni estreme e il silenzio è il suo compagno di strada come lo è il suo prezioso strumento, un Maggini dell'inizio del Seicento. E tanta passione ha messo in queste pagine, apparentemente un flusso di pensieri, in realtà riflessioni che vengono da molto lontano. «Prendevo appunti da diversi anni, all'inizio sotto forma di note, e quando mi sono messo a scrivere ho creduto di suonare. Più penso al silenzio più mi sembra di sentire la musica».

Siamo nella casa di Castelfranco Veneto affacciata sul giardino in fiore affidato alle cure esperte della moglie Arianna, mentre dell'orto si occupa personalmente il maestro. A guardia di casa Brunello due oche più una gallina faraona, che un giorno si è presentata al cancello e, da allora, si sente in dovere di starnazzare davanti agli intrusi cercando comicamente di imitare il verso minaccioso delle sue ospiti pennute. Molto più ospitali, per fortuna, sono i padroni di casa. Arianna Brunello ha riempito la lunga tavola da pranzo con una dozzina di portate per una rapida colazione. Troppo facile immaginare cosa siano le cene conviviali in casa Brunello. E quale vino si beva. Si dice che le ammiratrici del maestro si presentino in camerino con bottiglie di pregiato Brunello. Nomina sunt...
Lei cita un verso di Wislawa Szymborska: «Quando pronuncio la parola Silenzio, lo distruggo» eppure lei ha voluto descriverlo il silenzio. Non è stato un azzardo?
«Forse, ma prima di descriverlo l'ho cercato a lungo e credo che non smetterò mai di rincorrerlo. Io l'ho incontrato, l'ho conosciuto anche se ancora non ho capito da che parte sta. Se dalla parte degli umani, oppure in una sfera dove noi non abbiamo diritto d'accesso. Secondo John Cage, il musicista che ha dedicato la vita alla ricerca della definizione del silenzio come materia sonora, il silenzio non esiste. La mia è stata dunque una partenza in salita».
E la sua ricerca l'ha portata alla fine a confermare la scoperta di Cage.
«Dove c'è vita non ci può essere silenzio, ma alle affermazione di Cage ho affiancato una serie di domande per chiarire a me stesso dove può nascondersi».
E dove si nasconde?
«Dietro al suono, dietro al tempo, dietro al pensiero che occupa gli spazi del silenzio. Mi affascina cercarlo nella mente del compositore, nel momento in cui si affaccia un'idea e si compie la magia della creazione. Quello spazio, essendo un esecutore, io posso soltanto supporlo. Immagino Bach circondato dal frastuono casalingo di venticinque figli e tanti allievi che trova uno spazio silenzioso nella sua mente e scrive. Che cosa è accaduto in quel silenzio che ha generato quelle note?».
Lei invece dove ha incontrato il silenzio?
«In diversi momenti e in diversi luoghi. Per esempio quando avvicino l'archetto al violoncello e le persone tacciono, quello in sala non è un silenzio assoluto perché ci sono mille respiri, mille cuori che battono, è piuttosto un'eco del silenzio. Delle volte sono riuscito a coglierlo in cima a una montagna. Anche quello però non è un silenzio assoluto ma c'è uno spazio enorme dove cercarlo. Il silenzio è verticale, va su. Altrimenti perché gli uomini scalano le montagne?»
Perché da quando sono passati alla posizione eretta non hanno più smesso di guardare verso l'alto?
«Il silenzio in montagna ti spinge a chiederti cosa c'è sopra, a desiderare la solitudine. Nel deserto invece ho avvertito un silenzio orizzontale, più pesante e non solitario perché dà sempre la speranza di un incontro».
La sua interpretazione cambia se lei suona in un capannone industriale, su una montagna o in una sala da concerto.
«Sì, assolutamente. Adoro suonare in montagna perché mi dà la possibilità di scavare dentro il suono. Un suono crudo, non lavorato, che non torna indietro come avviene nelle sale da concerto dalla buona acustica, per questo deve essere personale, intenso deve riempire lo spazio e avere gambe per viaggiare per conto suo».
Il suo amico e straordinario musicista Ezio Bosso sostiene che la musica è basata sul silenzio.
«Io sono musicista non perché faccio musica ma perché riempio uno spazio silenzioso che, altrimenti, rimarrebbe vuoto. Quella che per Schubert era l'ottava nota».
Schubert ha scoperto il silenzio piuttosto tardi. Forse l'ottava nota si apprezza con la maturità.
«Credo proprio di sì! Agli inizi il silenzio è insopportabile, si ha fretta di ricominciare. Col tempo però si allunga. I grandi esecutori riescono a tenere con i gesti il silenzio di mille, duemila persone. Le ultime direzioni di Claudio Abbado erano impressionanti. Alla fine di un'esecuzione riusciva a stare tre, anche quattro minuti senza fare volare una mosca. Nei finali delle sinfonie di Mahler teneva i musicisti senza respirare. Invece nei primi anni, dopo l'ultima nota, si girava verso il pubblico con i capelli al vento per accogliere gli applausi. Un po' alla volta il momento del distacco è diventato sempre più lungo. Il silenzio è un ambiente che un po' alla volta diventa familiare».
Si può dire che la pausa tra una nota e l'altra è un vuoto? Un silenzio?
«Certo, è uno spazio come tra un pianeta e l'altro, è una distanza».
L'interprete è libero di allungarla o accorciarla?
«Totalmente libero, prendendosi le sue responsabilità. Nel libro mi sono fatto aiutare dall'architettura. Un tempio alterna pieni e vuoti, ai grandi architetti greci serviva un'alternanza, come lo sono il giorno e la notte, la vita e la morte, lo yin e lo yan. Spazio e pieno. Fare durare troppo il silenzio significa costruire un Partenone con dei vuoti eccessivi tra le colonne. Per essere liberi non bisogna guardare al passato, né alla musica del futuro. Rispetto ma non sostengo gli interpreti legati al passato perché ai tempi di Beethoven si faceva così. Io vivo in questo momento, le mie orecchie non dormono, ricevono migliaia di messaggi che non posso cancellare o non mettere in relazione con quanto faccio. Perciò se il mio viaggio in treno è stato ansioso a causa di un ritardo, la mia esecuzione rispecchierà il mio stato d'animo. La scelta del tempo è personale, e implica anche quella del silenzio».

Lei come reagisce al rumore del pubblico?
«Dipende. Se il programma di sala cade dal grembo di una signora, che si è addormentata durante un passaggio a cui ho lavorato mesi per portare il pubblico ad assaporare il silenzio, lo considero una distruzione totale e devo reagire, inventarmi una soluzione B a cui non ho mai pensato, eppure necessaria per ridare una forma a quello che ho descritto nell'aria. Noi interpreti non disegniamo né scriviamo, la nostra narrazione svanisce nell'aria».
Quindi bisogna essere sempre pronti a improvvisare.
«Bisogna avere le spalle solide per reagire, ma capita anche allo sciatore che trova una buca in gara».
Lei ha preso un capannone dismesso, l'ha ridipinto, chiamato Antiruggine e lì condivide la le sue esperienze senza palco, né poltrone. Un modo per rendere fruibile la musica a tutti.
«Suono molto nelle sale da concerto e mi dispiace che il lavoro delle prove vada perduto. È come buttare via quintali di stoffa per fare un vestito. Cosa ne facciamo di quel materiale? Bisogna condividerlo e quindi è bene portarlo in altri luoghi. Antiruggine è votato a questa reimmissione in circolo di materiale che altrimenti andrebbe perso. Lì cerchiamo di condividere le decisioni dell'artista non le esecuzioni, per quelle ci sono i teatri e i luoghi deputati».
Ad Antiruggine non ci sono nemmeno i camerini. Invece nei camerini dei luoghi deputati le signore le portano delle bottiglie di Brunello.
«È vero, infatti ho una cantina molto fornita, grazie soprattutto a una signora straordinaria che vive con due asini all'isola d'Elba e per mia fortuna è appassionata di entrambi i Brunello. Ad Antiruggine, invece, il vino lo offriamo noi dopo i concerti».
Dica la verità, lei ha scritto il libro perché ritiene che la musica vada ascoltata in silenzio.
«Sì, detesto la musica di sottofondo. Colpa di mia madre che metteva un quartetto di Beethoven e poi andava a lavare i piatti. E io, che mi dannavo a studiare il violoncello, impazzivo all'idea che tutta la mia fatica sarebbe stata un giorno sopraffatta da un rito così prosaico».
fonte: Venerdì di Repubblica, maggio 2014




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