lunedì 5 febbraio 2018

La passione per l'Italia



A cinquanta anni dalla fondazione, il  leader  Andrea Riccardi  ripercorre le vicende più significative della Comunità di Sant'Egidio in un'intervista ad Aldo Cazzullo (Corriere della Sera,4 febbraio 2018).
Pubblichiamo, di seguito, la parte dedicata a Giovanni Paolo II

L’incontro con Wojtyla? 
«Era il 1978, subito dopo la sua elezione. Venne in visita alla Garbatella, vide un convento di suore cappuccine, entrò, e lo trovò pieno di bambini: era l’asilo che avevamo aperto per i figli delle ragazze madri che vivevano in strada, uno era stato morso dai topi e aveva rischiato di morire».

E il Papa?
«Si fece fotografare seduto tra i banchi, con il mantello rosso, circondato dai piccoli. Poi venne a trovarci a Trastevere. E ci invitò in Vaticano. E a Castelgandolfo».

Com’era in privato?
«Pieno di passione. Amava l’Italia, fu l’ultimo a pensare che il nostro Paese avesse un ruolo universale. Anticomunista come nessuno, era però preoccupato per l’avanzata della Lega. Lo ricordo battere i pugni sul tavolo: “Solo Papa si batte per l’unità d’Italia! E il presidente della Repubblica che fa?” È stato forse l’unico, tra gli ultimi Papi, a uscire di scena da vincitore; eppure non era sereno».

Perché?
«Si sentiva tradito dalla sua Polonia, che aveva scelto la secolarizzazione. Ricordo l’ultimo viaggio in patria. Fiammeggiava come Mosé: “Io vi ho liberati, e ora voi volete l’aborto!”. Sentiva che nel ‘900 la Chiesa era tornata martire, come i primi cristiani: il nazismo, il comunismo. E visse il martirio nel suo stesso corpo. Una volta a cena Fidel Castro parlò per sei ora di fila, quasi sempre di Wojtyla: ne era profondamente affascinato».

Voi faceste la pace in Mozambico.
«Là vidi per la prima volta le persone morire di fame, i bambini con le pance gonfie, le donne assediare lo spaccio e contendersi un’arancia o una mela gettata per tenerle a bada; e le assicuro che è una cosa orrenda. Andammo per aiutare i poveri; capimmo che è la guerra a creare i poveri. Con Matteo Zuppi, ora arcivescovo di Bologna, ci dicemmo che l’unico modo era costruire la pace».

Il Mozambico era lacerato dalla guerra civile: il governo filosovietico contro la guerriglia armata dal Sud Africa.
«Anche i bianchi erano poveri: non avevo mai visto in Africa un mercato ambulante con un banco tenuto da una donna bianca. Il regime aveva deportato 200 mila “asociali”: la borghesia del Paese. Trovammo la figura chiave nel vescovo Gonçalves, che era cugino di Dhlakama, il capo dei ribelli. Portammo il vescovo a Roma, da Berlinguer».

Perché Berlinguer?
«Il Pci nel mondo marxista contava. Lui si indignò: “Davvero siete perseguitati? Davvero non vi lasciano suonare le campane?”. Così mandò a Maputo suo fratello Giovanni. Poi portammo il capo del governo, Samora Machel, da Wojtyla. All’inizio non voleva saperne: era convinto di doversi inginocchiare davanti a lui. Alla fine Wojtyla disse: “Papa non crede che è un comunista. Papa di comunisti si intende. Questo è un nazionalista”. La pace si poteva fare».

Nel 1982 lei andò in Libano.
«Là invece vidi le persone morire in guerra. Visitai Sabra e Chatila dopo la strage, portai le foto a Giovanni Paolo II. Non riusciva a credere che un cristiano potesse averlo fatto».

Nessun commento:

Posta un commento