martedì 9 ottobre 2018

Dove un tumulto d’anime saluta le insegne di Liocorno e di Tartuca



"La tua fuga non s’è dunque perduta/ in un giro di trottola/ al margine della strada:/ la corsa che dirada/ le sue spire fin qui,/ nella purpurea buca/ dove un tumulto d’anime saluta/ le insegne di Liocorno e di Tartuca./ Il lancio dei vessilli non ti muta/ nel volto; troppa vampa ha consumati/ gl’indizi che scorgesti; ultimi annunzi/ quest’odore di ragia e di tempesta/ imminente e quel tiepido stillare/ delle nubi strappate,/ tardo saluto in gloria di una sorte/ che sfugge anche al destino. 

Dalla torre/ cade un suono di bronzo: la sfilata/ prosegue fra tamburi che ribattono/ a gloria di contrade./ E’ strano: tu/ che guardi la sommossa vastità,/ i mattoni incupiti, la malcerta/ mongolfiera di carta che si spicca/ dai fantasmi animati sul quadrante/ dell’immenso orologio, l’arpeggiante/ volteggio degli sciami e lo stupore/ che invade la conchiglia/ del Campo, tu ritieni/ tra le dita il sigillo imperioso/ ch’io credevo smarrito/ e la luce di prima si diffonde/ sulle teste e le sbianca dei suoi gigli./ Torna un’eco di là: ‘c’era una volta…"

Eugenio Montale, Il Palio






"Il Duomo sfuma/ il bianconero anelito di cielo/ in pinnacoli mistici marmorei/ a intagli leggiadrie di fresca spuma/ e colonnette trifore perfette/ ma Siena avvampa la ridesta vita/ dai silenziosi oblii dei muti vicoli scattata/ con incalzante furia esasperata/ a rullio di tamburi sulla dura/ anima trecentesca/ arsa di giallo tufo scalpitato/ d'impazienza pressata a mortaretti/ scoppianti in petto ai cuori accelerati/ imboccati alla Piazza traboccante".

Dina Cucini
La Biblioteca Piccolomini 


Intorno alla concava, inclinata piazza del Campo (che ha la forma di una conchiglia ed è pavimentata in cotto, a spina di pesce) corre un anello di pietra lungo poco più di 300 metri. Su questo perimetro, cinque giorni prima del Palio, una speciale miscela di tufo e sabbia, conservata e curata d'anno in anno in certe cantine dei magazzini del comune, viene sparsa e pressata per uno spessore di 20 cm e una larghezza di 7 metri e 50. Si dice allora che "c'è la terra in piazza", ossia che la febbre della gara è entrata nello stadio acuto. 

La corsa ( detta anche "carriera") è brevissima. I cavalli, montati a pelo dai fantini, devono percorrere tre soli giri di pista, e lo fanno in un centinaio di secondi. Ma quel minuto e mezzo, atteso, preparato, immaginato, sognato per un anno intero da un'intera città , e intollerabilmente repressi dall'ultima, sapiente, torturante dilazione del corteo storico, esplode infine con un furore liberatorio che non ha eguali in nessun'altra competizione del mondo.

Fruttero e LucentiniIl palio delle contrade morte




« E mentre Siena dorme, tutto tace e la luna illumina la Torre
Senti nel buio, sola nella pace, sommessa Fonte Gaia
Che canta una canzon, d’amore e di passion…
Nella Piazza del Campo / ci nasce la verbena
viva la nostra Siena / viva la nostra Siena
nella Piazza del Campo / ci nasce la verbena
viva la nostra Siena / la più bella delle città! »




San Galgano: il mistero dello spada nella roccia



La costruzione dell’abbazia cominciò nel 1218 per iniziativa dei monaci cistercensi, che con la loro rete di monasteri rivoluzionarono la spiritualità medioevale sancendo il passaggio dal monachesimo degli eremiti a una religiosità più ancorata alle esigenze anche economiche dei territori. L’abbazia di San Galgano costruita in tempi rapidi prosperò per oltre un secolo, acquisendo un ruolo di rilievo nella ricca economia della zona e nelle stesse istituzioni della città di Siena.

Il lento declino cominciò nel 1348, quando gli attivi monaci cistercensi vennero falcidiati dalla peste nera. Persa l’autonomia dopo un lungo contenzioso con Siena, nel 1576 pare che nell’abbazia di San Galgano abitasse un solo monaco. Dopo un incerto tentativo di restauro, le piombature del tetto furono vendute, gli infissi e gli arredi saccheggiati. E oggi quel che resta dell’intero complesso monastico sono delle maestose mura con le navate e alcune sale, tra cui quella splendida del refettorio. Abbastanza per colpire i visitatori, italiani, ma soprattutto stranieri, attirati in questo luogo isolato e suggestivo.




Ma perché i cistercensi decisero di costruire un così imponente complesso in quella defilata valle attraversata dal fiume Merse? La risposta è semplice. Perché a duecento metri già sorgeva una chiesetta, l’eremo di Montesiepi, il cui primo nucleo si deve allo stesso santo (e ai suoi diretti seguaci) cui il complesso è dedicato. Nella cappella di Montesiepi, detta anche «rotonda» per via della forma circolare della struttura centrale, confitta in una roccia a un paio di metri dall’altare c’è una vecchia spada di ferro. Una teca trasparente la protegge dai vandali e dagli idioti, che già negli anni Settanta e negli anni Novanta del Novecento, credendosi nuovi re Artù, provarono a estrarre l’antica arma provocando seri danni.

La fortuna di San Galgano nei secoli e l’immediata popolarità del suo culto stanno in quella spada conficcata nella roccia. Non si tratta soltanto di un mito ma di un fatto tremendamente serio, tale da scalfire la primazia di quell’altra spada nella roccia cui sono stati dedicati fiumi di pagine e poi, nell’era dell’immagine, film e documentari: stiamo parlando della spada di re Artù e del ciclo bretone che ne parla. Ma come da anni si affannano a ripetere alcuni studiosi, per esempio Mario Moiraghi, autore de «L’enigma di San Galgano» (Ancora editore), San Galgano batte Re Artù in maniera chiara e limpida se ci si vuole attenere ai fatti storici. 


Eremo di Montesiepi: la spada nella roccia


Intanto Galgano Guidotti (anche se sul cognome c’è qualche dubbio) è un personaggio realmente esistito, nato nel 1148 a Chiusdino e morto nel 1181, come attestano documenti ancora esistenti. Invece re Artù e tutti i suoi cavalieri appartengono al mondo delle leggende. E poi gli atti del processo di beatificazione, che si possono leggere in appendice al volume di Moiraghi, risalgono incontestabilmente al 1185, cinque anni prima che Chrétien de Troyes scrivesse il suo «Perceval», dando origine ai miti della cosiddetta «materia di Bretagna» e venticinque anni prima che il tedesco Wolfram von Eschenbach strutturasse più solidamente la storia nel suo «Parzival» (1210). Bene inteso, la spada di San Galgano, non è l’unica arma medioevale conficcata nella roccia in Europa.

Ne esiste una molto simile anche a Rocamadour, nel Perigord, sul cammino di Compostela, e si dice che potrebbe trattarsi della Durlindana, la mitica spada di Orlando, il paladino di Carlo Magno. Ma la spada di San Galgano ha tutti i numeri per sconfiggere sul piano storico quella di Re Artù, mai vista da nessuno. Tra le due spade — una delle quali è realmente esistente e secondo gli esperti di armi medioevali, oltre che per alcune analisi chimiche, risalirebbe effettivamente al dodicesimo secolo — c’è una differenza concettuale di fondo. 

L'eremo di Montesiepi

La spada di Galgano venne confitta nella roccia, dopo una vita di dissolutezze, come potente gesto di conversione, mentre il predestinato re Artù estrasse la sua spada dalla roccia per combattere e instaurare un regno di giustizia. Secondo gli atti del processo di beatificazione, che riportano la testimonianza della madre del santo, Dionigia, quando Galgano si recò a Roma in visita da papa Alessandro III, degli invidiosi andarono nell’eremo di Montesiepi e cercarono in tutti i modi di estrarre la spada dalla roccia. Non riuscendovi la spezzarono. Poi, al ritorno del santo, per miracolo, la spada si rinsaldò.




Esiste un collegamento tra San Galgano e Re Artù e se esiste, quale è? Intanto il nome, scrive Moiraghi, Galgano, tanto simile a Galvano, uno dei cavalieri della tavola rotonda. E poi i collegamenti, neppure tanto misteriosi tra la Toscana della valle del Merse, dove passava la via Francigena, e la Francia medioevale di Chrétien de Troyes, il grande artefice del ciclo bretone. 


A far conoscere in Francia la storia di Galgano sarebbe stato un altro eremita, Guglielmo di Malavalle, che si stabilì in un sito alle spalle di Castiglione della Pescaia, ancora oggi visitabile anche se molto malmesso, nonostante gli sforzi encomiabili di alcuni volontari guidati dal medico Fabrizio Fabiano. Secondo alcune ipotesi Guglielmo di Malavalle potrebbe essere non soltanto di origine francese ma uno dei re di Aquitania ritiratosi dopo una crociata. Quella collegata alla cerchia dell’eremita Guglielmo è soltanto una delle tante ipotesi sul collegamento tra la figura di San Galgano e le storie di Bretagna. Il vero mito della spada nella roccia sarebbe dunque nato in Toscana alla fine del 1100 anche se secondo la leggenda re Artù sarebbe vissuto molti secoli prima…

fonte: Dino Messina, Corriere della Sera


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