lunedì 10 ottobre 2011

Andrea Zanzotto: il poeta che parla alle montagne


Ricorre oggi, 10 ottobre, il novantesimo compleanno di Andrea Zanzotto, il poeta che ha trascorso la sua lunga vita tra Pasubio, Grappa e Montello,  le montagne sacre della Prima guerra mondiale
Per festeggiare l'evento pubblichiamo due interviste apparse su Repubblica e il Corriere della Sera (rispettivamente nel 2009 e nel 2011) e un articolo pubblicato oggi sul quotidiano milanese.


Zanzotto, mi racconti le sue giornate, le sue abitudini di lavoro e di svago.
"La mia giornata, adesso, è grigia. Dico grigia, non brutta. Gli anni vanno avanti per conto loro senza che noi facciamo nulla per farli aumentare di numero. Se non hai tra le mani un quotidiano, ti è difficile capire ogni mattina come si chiami il giorno che è appena passato: sarà stato un lunedì, un venerdì? Oggi, per esempio è martedì: lo ricostruisco dal fatto che ieri è venuto qui il mio terapista. Si trova qui il lunedì e il giovedì per meno di un'ora. A scandire il tempo mi servono anche quelle specie di 'arrampicate di riabilitazione' che faccio sotto la sua guida".

Come scrive le poesie e le altre cose: a mano, a macchina?
"Da quando sono caduto rompendomi il femore ho sentito che il mio essere diventava fragile, come se mi si fosse posata addosso una nuvola di piccole paure. La riabilitazione in parte mi aiuta. Ma ogni volta che poso il piede a terra temo di sbagliare. Sia pure a fatica sono riuscito a riconquistare la scrittura a mano: mi serve per firmare le copie dei miei libri e per fare le dediche. Per il resto, detto le mie parole ad amici che le versano nel computer. Certe poesie da me scritte a mano non sono del tutto chiare a me per primo. Una signora mi ha aiutato a mettere insieme un volume che uscirà da Mondadori il 10 di ottobre, giorno del mio compleanno".

Le capita di incontrare qualche amico?
"Ce n'è uno che vedo abbastanza spesso. È Luciano Cecchinel, poeta in italiano e in dialetto. Come me". 

Le piace esprimersi nella parlata di queste Prealpi? 'Io parlo in questa lingua che passerà', ha scritto sotto il titolo 'Caso vocativo'. Si riferiva al vernacolo o all'italiano?
"Alludevo alla lingua in sé. Non c'è nessuna lingua che resista. Vengono tutte travolte. Mi accorgo, specie quando scrivo, che certe mie parole dialettali - di qua, di Soligo - non vengono più capite dagli stessi abitanti. Il mio dialetto risulta indecifrabile. Il fenomeno è reciproco: quando parlano i giovani mi pare di non capirli. Le parole indicano dei gesti, e i loro gesti non sono i miei". 

Per fare poesia è indispensabile essere infelice?
"Assolutamente no. La poesia è una via di recupero anche per il dolore. Per me nasce dalla gioia che si prova contemplando la natura. Proprio per quello sono rimasto qui in campagna. Guardare i profili delle Prealpi è un motivo d'incanto e di ispirazione, se posso usare questa parola senza che nessuno si offenda. Il paesaggio fornisce suggerimenti freschi. Sempre. Io mi diletto perfino a decifrare i messaggi immobili che trasmettono le montagne. Il loro alfabeto". 

I messaggi alpini: me ne confida qualcuno?
"Sulle alture bellunesi che si vedono da casa mia mi sembra di scorgere delle iniziali. Vi contemplo una sequenza di M e di N maiuscole. La leggo così: MAI MANCANTE NEVE DI METÀ MAGGIO. Per me, il ritorno della neve in piena primavera è un appuntamento sgradito ma in qualche modo affascinante. In Germania questo riapparire della neve lo chiamano 'I santi di ghiaccio'. Noi qui gli diamo un altro nome: la 'settimana nespolèra'. Fa cadere dagli alberi i fiori di nespolo. Vede come paesaggio e messaggio possono sovrapporsi dando insieme una sensazione di disagio e di gioia".

Nel libro che lei ha lei scritto con Marzio Breda si citano a un certo punto cinque poeti che nel 1950 le conferirono il premio San Babila di poesia: Ungaretti, Montale, Quasimodo, Sinisgalli e Sereni. Con chi, fra loro, è entrato in confidenza? 
"Più o meno con tutti. Con Sereni parlavamo soprattutto degli scrittori giovani che stavano spuntando in Italia e che lui sponsorizzava. Mi ha legato a Montale una grande devozione da quando, nel 1951, dedicò sul 'Corriere della sera' un breve articolo a 'Dietro il paesaggio', il mio primo libro. Poi recensì 'La Beltà'. Era il 1968. Con Montale era però praticamente proibito parlare di poesia. Mi intrattenevo, con lui, sulle novità della scienza. Lo trovavo molto ferrato".

Lei è uno studioso di astronomia, di fisica, di psicanalisi.
"Un dilettante. Quel tanto che può servire a parlarne fra amici colti. Tornando a Montale, ricordo che una volta gli portai, su incarico dell'autore, il grosso libro del mio amico Michel David sulla psicanalisi nella cultura italiana. Gli domandai dopo qualche tempo che cosa ne pensasse. Mi rispose: come si fa a leggere seicento pagine in due ore? Evidentemente non voleva dedicargli di più".

Le piaceva conversare con Montale?
"Certo. Ma era meglio parlargli da solo a solo, non in presenza della sua domestica, la Gina".

Come tutti sanno, Montale fondò una nobile istituzione, quella delle badanti.
"Sì, in un certo senso la Gina è stata una capostipite. Purtroppo metteva bocca. Una volta, discutendo con Montale di filosofia, mi capitò di pronunciare la parola greca 'entelèkeia', che equivale ad anima o psiche. La Gina mi domandò: è dialetto veneto?".


Lei ha detto una volta di aver pensato di trasferirsi a Milano. Perché? 
 "Quando ero giovane c'erano tanti che andavano a vivere a Milano. Io ci capitai nel '45 insieme con un gruppo di partigiani, su un camion. La guerra era appena finita, i ponti erano in briciole. Lo scultore Carlo Conte, che era suo amico, mi condusse dal poeta Alfonso Gatto. Viveva in un porto di mare. Chi andava a trovarlo finiva per dormire a casa sua, talvolta a lungo. È stata la visita della mia esistenza. Gatto mi disse: 'Avrai certo con te un campione delle tue poesie'. Ce l'avevo in tasca, le poesie. Le lesse la sera stessa".

Gli piacquero?
"'Già adesso', mi disse, 'dài dei bei segni'".

Lei, Zanzotto, amerebbe viaggiare?
"Ho sempre desiderato farlo. Ma ben presto mi capitarono dei fenomeni nervosi. Soprattutto l'insonnia, la compagna della mia vita. Montale mi suggerì il sonnifero che usava lui, il Mandrax. Ottimo. A forza di Mandrax e di tanti suoi successori, l'insonnia l'ho un po' domata".

In un articolo, il nostro Enzo Golino l'ha definita un 'mite nevrotico'.
"Tutti e due gli aggettivi mi stanno bene. Vorrei solo essere un po' più solido fisicamente. A costo di apparire meno mite". 


Sarebbe benefica, a suo parere, una messa in mora del mito del progresso, se non addirittura l'inizio di una 'decrescita' come suggerisce ad esempio l'economista e l'antropologo francese Serge Latouche?
"Di Latouche sono un ammiratore fanatico. E non mi considero, in questo senso, un isolato. In queste mie zone, quando meno te lo aspetti, trovi persone che confidano nel contenimento del falso progresso. Godono di antichi piaceri. Resistono all'onda consumistica. Continuano a fare gli agricoltori come sempre. Non si autopromuovono. Non praticano né diffondono anticrittogamici. Detestano gli elicotteri che bombardano veleni sulle viti. Sono pochi ma ci sono, che Dio li salvi".

Torniamo ancora alla poesia. Ha detto che le offre un sollievo dalle 'turbe fisiche e psichiche'. In che cosa consiste quest'azione?
"Montale, sempre lui, scorgeva nei miei versi delle risonanze terapeutiche. Sta di fatto che quando scrivo mi sento meglio. Anche adesso che sto per scrivere quello che potrebbe essere il mio ultimo libro".

Ha già un titolo?
"Inseguo delle ipotesi. Si potrebbe chiamare, per esempio, 'Erratici'. I massi erratici sono dei blocchi ciclopici di roccia trasportati dai ghiacciai".

La critica - penso soprattutto all'ampia prefazione di Ferdinando Bandini alle sue 'Poesie e prose scelte' che sono apparse nei Meridiani della Mondadori - parla di un suo 'leopardismo di fondo'. Condivide?
"Mi convince soprattutto la scoperta, fatta da Leopardi, della presenza del male nella natura".

A leggerla e ancora di più a conoscerla, si resta colpiti dalla sua passione per la musica. "Quello con la musica è un rapporto che intrattengo da sempre. È come una porta aperta sull'infinito. A pochi passi da Pieve di Soligo, in una frazione che si chiama Barbisano, si era ritirata Toti Dal Monte, il famoso soprano. Sul suo esempio tutti canterellavano, allora, pezzi d'opera. Tutti, perfino i preti. Era una specie di compagnia cantante. Nel palazzo della Dal Monte, in mezzo al bosco, si davano convegno anche i partigiani. Io ero un ragazzo, e ricordo le case piene di dischi".

Lei ha avuto un'educazione religiosa?
"In qualche modo sì. Mi capita di tanto in tanto di recitare la preghiera della notte, in latino. 'Angele Dei, qui custos es mei'".

Qui intorno, tutto parla della Grande Guerra. I nomi dei paesi ne portano incisa la storia: Sernaglia della Battaglia, Moriago della Battaglia. "Ancora adesso capita che nelle zone vicine al Piave e sul Montello si trovino resti umani".

Le accade, Zanzotto, di pensare alla fine di tutto. Come, per dirlo nel suo dialetto, quei 'veci che speta la morte'?

"Non saprei. A volte mi colpisce un'immagine. È come qualcosa che si fa visibile in un alone grigio-giallo. Il grigio è il colore dell'inverno. Il giallo è la primavera. L'accostamento fra i due colori è la confusione. È un misto che la dice lunga su questi nostri tempi. I tempi del disordine"..

Nello Ajello, Il poeta che parla alle montagne,  L'Espresso, 13 aprile 2009



Sorprende trovare Andrea Zanzotto seduto al tavolo della cucina con un pennello in mano e un foglio colorato ad acquerello. Ha un sorriso degli occhi, dolce e stanco. Per raggiungere il divano, a piccoli passi, deve farsi aiutare da suo figlio Fabio, che abita qui con lui, nella vecchia casa di Pieve di Soligo, a Nord di Treviso, il paese in cui il maggior poeta italiano della generazione post-Montale è nato nel 1921 e da cui si è allontanato solo per brevi periodi. Ci sono ricordi che allontanano la tristezza e altri che la rendono più aspra. «Dipende anche dal tempo atmosferico. Per esempio, oggi c'è un bel sole... e ricordare è più piacere che dolore. Ci sono stati periodi terribili, ma la memoria volentieri ti porta a momenti non dirò belli ma almeno sopportabili».
Non è sopportabile il ricordo di papà Giovanni, decoratore e pittore il cui nome è diventato una via di Pieve, socialista e cattolico, costretto ad allontanarsi per le continue minacce squadriste dopo aver lodato pubblicamente Matteotti: «I miei genitori hanno patito a lungo, perché mio padre era perseguitato politico, qui gli negavano l'impiego e dovette trascorrere lunghi periodi in Francia.

Poi trovò lavoro a Santo Stefano di Cadore, grazie a una tradizione di libertà che non teneva conto dei divieti. Papà affrontava i nemici, ma aveva una moglie malata e cinque figli». Il ricordo più fastidioso, oltre all'allergia e all'asma rivelatesi prestissimo, è vicino a quegli anni: «Non aver potuto prender parte con maggiore peso alla resistenza locale». Zanzotto partecipò alla stesura di manifesti e fogli informativi della resistenza e nell'agosto del '44 dovette rifugiarsi in montagna mentre Pieve bruciava. Tra i ricordi non sopportabili c'è anche il dolore e la solitudine di mamma Carmela: «È sempre stata occupata da eventi luttuosi». Tra i ricordi insopportabili ci sono i lutti precoci: la morte a sei anni della sorella Marina (gemella di Angela) nel terribile inverno del '29 e poi nel '37 la morte per tifo di Angela: «Deve esserci una vecchia fotografia con le due sorelline a Santo Stefano...». Zanzotto racconta di aver scritto un biglietto alla Madonna perché resuscitasse Marina: «Cercavo appoggio... Avere vissuto cose dolorosissime da piccolo ha influito sul resto della mia vita, rimane una traccia profonda. Io ero il primogenito e cominciai a esercitare sulle due gemelline una specie di protettorato. Un giorno ci hanno portati da certi parenti di Montebelluna per fare conoscenza, anche loro avevano due gemelle. Io avrò avuto 3 o 4 anni e mi esortarono a lodare le due bambine degli ospiti, io invece dissi che erano brutte, avevano gli occhi bigi, a differenza delle mie sorelline che avevano dei begli occhi neri».

Si avvicina una signora straniera: «La pastiglia, Professore...». Zanzotto ingoia una pastiglia con mezzo bicchiere d'acqua, mentre accarezza Utto2, un gattone nero che dal divano con un salto si è spostato sulle sue gambe. «Utto viene da farabutto. Ho conservato la tradizione del gatto, da piccolo avevo dei gattini, ma morivano anche quelli... Ne ho perso uno di recente, collegato ad altri tempi. Stento anche a ricordare i particolari del passato, perché ho come dei vuoti di memoria, ma c'è un fondo cupo sull'infanzia. Con la morte delle mie sorelle restava un sottofondo triste, anche quando non avevo proprio quel pensiero lì. La poesia mi ha aiutato sempre più, l'ho sentita crescere come il corpo, diventava qualcosa di intimamente attivo, anche perché riuscii abbastanza presto a scrivere delle cose decenti». Aveva più o meno 7 anni, Zanzotto, quando cominciò a scrivere versi: «La ricerca letteraria è come una sorgente che viene avanti e si impone sopra tutto il resto, e con la famiglia non posso dire che sia stata proprio una frizione... Non sono stato un padre distratto, ma nemmeno assorbito. I miei due figli sono cresciuti bravi e indipendenti». Tra i ricordi «sopportabili» c'è, nel '50, il premio San Babila per gli inediti, 100 mila lire. In giuria Montale, Ungaretti Quasimodo. «Ho comprato una Lambretta, che costava 115 mila lire. Quando mi videro arrivare a casa, nella Cal Santa, dove c'erano tutti i vecchi, è stato un momento importante, proprio. Una mia vicina di 80 anni mi pregò di farle fare un giro in lambretta». La voce flebile di Zanzotto, che sembra masticare le lunghe pause tra una frase e l'altra, si inarca in un sorriso. «La soddisfeci».

Più che sopportabile è il ricordo di tre figure femminili dell'infanzia. La nonna paterna: «Pregavo perché potessi morire prima e non dopo la morte di lei. Sono divagazioni lugubri e comiche nello stesso tempo. Le perdite convivevano con l'affetto che la nonna mi dimostrava, e appena potevo mi rifugiavo da lei che mi accontentava in tutto». Zia Maria, che avvia il piccolo Andrea alla lettura di settimanali e giornaletti: «Aveva un estro letterario e artistico, scriveva poesiole, fumava col bocchino e siccome mamma era molto timorata e ne pensava molto male. Era impiegata da un notaio, aveva un'istruzione di scuola inferiore, la sera andava in giro per scrivere lettere e le offrivano da bere. "Signora Maria, un goto?". Purtroppo finì per prendere l'abitudine del bicchiere». Terza presenza femminile è una direttrice didattica veneziana fiera di quello scolaro fuori dalla norma: «Mi aveva preso sotto la sua protezione e mi indicava a esempio di fronte agli altri, specialmente in geografia. Il colpo mancino che annullava tutti era l'enumerazione degli Stati Uniti, che allora erano 48». 

Quel «titanismo esistenziale e cosmico» che Franco Fortini intravide subito nella poesia di Zanzotto ha sempre avuto qualcosa di religioso o di sacro: «Non ho mai avuto un distacco dalla religione infantile... Anzi, pian piano quella dimensione veniva sentita come necessaria, soprattutto per vincere i dolori della vita». E ci riusciva? «Sì». Forse anche per questo Zanzotto ha conservato l'abitudine di recitare il Requiem prima di dormire: «Un modo per rivolgere un pensiero ai miei morti». La morte è un pensiero più forte a quest'età? «In passato ho avuto parecchi momenti di angosce, però a un certo punto ci si rassegna. Diciamo che c'è un avvicinamento naturale all'idea. Ormai ho un'età in cui non c'è giornata che non porti la notizia della morte di un amico, e quindi... L'altra mattina Timoteo. Ogni giorno si può dire che qualcuno manca all'appello». All'appello mancano anche i grandi maestri del passato: Montale («quando venne a Pieve, vide mia moglie, che era preside e disse: ai miei tempi i presidi non erano così carini...»), Ungaretti («un uomo di straordinaria generosità»), Fellini, che gli chiese di scrivere per diversi suoi film, a partire da Casanova («è morto troppo presto, direi che aveva quell'ossessione della morte...»).

Utto è tornato ad accucciarsi sul divano. Sono passati tanti anni da quando nelle campagne si sentiva recitare il «filò», a cui il poeta ha dedicato un omonimo, memorabile, poemetto dialettale: «Il filò era un rito importante totalmente scomparso: nelle stalle si riunivano i contadini, e ognuno raccontava una storiella che conosceva. Era un insieme di conoscenze che sono state perdute e che invano qualcuno tenta di restaurare. Mi ricordo, non sono tanti anni, che mi meravigliavo di come potessero creare un partito rivendicando la forza del parlato dialettale senza nessuna base teorica. Per esempio, il rito di Bossi che va alle sorgenti del Piave... Si cominciava a degenerare. Sono equivoci storici. Per esempio, tutto il periodo del Medioevo avanzato in cui cresceva la nuova lingua italiana insieme con i vari dialetti non è stato capito. Ho scritto in dialetto molto presto, ma ho criticato la Lega perché non conosceva la realtà complessa dei dialetti, come nascano, fioriscano e sfioriscano».

Si sa, per Zanzotto è angoscioso anche il mutamento radicale del suo paesaggio. Angoscia e rabbia fotografate nel titolo di un magnifico libro-conversazione con Marzio Breda, In questo progresso scorsoio, uscito un paio d'anni fa da Garzanti. «Il paesaggio qua era qualcosa di compatto, quella stradina che si partiva dalle vicinanze della chiesa e andava al cimitero era un luogo molto rispettato... Mio padre, come pittore, ha decorato di immagini sacre quel porticato. Ora è un disastro, c'è stato uno snaturamento, hanno dato perfino il benestare a creare un deposito di gas che proviene dalla Russia». Marisa, sua moglie, si agita, va e viene, non sta nella pelle: «Parlano delle cattiverie di Zanzotto, perché ha difeso l'unico pezzo verde nell'ansa del Soligo. Andrea dovrebbe pubblicare gli insulti che ha ricevuto dal suo paese». Zanzotto alza gli occhi al cielo: «È diventato tutto incontrollabile, d'altra parte se si pensa agli allagamenti recenti in Veneto... che spavento, proprio!». Espressione di ribrezzo. «Pieve ormai è una piccola Los Angeles. Ci sono limiti realmente invalicabili, ma finché uno non è dentro il caos non se ne rende conto. Il rinsavimento, se avverrà, sarà formato di singulti. D'altra parte, l'altra sera in Tv parlavano degli antichi Maja che prevedevano nel 2012 la fine del mondo: se è così, vale la pena accettare quel che succede». Dall'ultima lunga pausa, sgorga un motivetto allegro, quasi cantato come una filastrocca infantile: «Comunque, se oggi seren non è doman seren sarà, se non sarà seren si rasserenerà».


Corriere della Sera, 28 marzo 2011



Andrea Zanzotto compie novant’anni. Autore celebre, quasi nume tutelare e personificazione della poesia in un tempo che ne ha estremo bisogno (ma non lo riconosce), Zanzotto è probabilmente più citato che letto. La sua opera è complessa, a volte ardua; abbiamo provato a indicare dieci parole che possono aiutare ad avvicinarsi all’uomo e alla sua poesia, non tanto come chiavi di comprensione ma come sentieri che tentano la via di un fittissimo bosco. 


BOSCO Indica non solo la condizione selvaggia della natura, ma anche una serie di simboli legati a essa: il sogno di un mondo naturale che si autoregola in armonia con gli uomini; il labirinto della lingua e degli stili nel quale il poeta tenta di orientarsi. Bosco per antonomasia è quello della raccolta Il Galateo in Bosco (1978): è il Bosco del Montello, luogo magico e dal «respiro preistorico», dove si trovano mescolati i segni della geologia e della violenta storia umana, dai massacri della Prima guerra mondiale ai danni della speculazione edilizia. 


CULTURA Vastissima e aperta a ogni disciplina: letteratura, linguistica, scienza, psicanalisi. Gli interessi di Zanzotto vanno dalla «mitologia» locale (gli aneddoti sul contadino e «profeta» Nino Mura) ai più recenti dibattiti scientifici. Di notizie scientifiche si nutre la sua poesia, che è ricca di termini derivati dai vari campi del sapere (spesso dalla medicina). Ma le ampie conoscenze rendono originali anche i saggi di Zanzotto, dedicati agli scrittori più amati, al cinema, alle arti, alla musica, ai luoghi del cuore. 


INSONNIA Un disturbo col quale Zanzotto ha lottato per decenni (nella poesia «Subnarcosi» parla del «mio sonno / che mai ritornerà»). L’insonnia gli ha forse anche aperto esperienze poetiche nuove, portandolo, come uno sciamano del nostro tempo, a sondare territori psichici lontani, dove pochi altri autori si sono spinti. L’insonnia si lega anche all’ipocondria zanzottiana: le «fisime» o fissazioni sulle possibili malattie derivano anche da una sensibilità particolarmente attenta ad auscultare il misterioso brusio del corpo. 


ISOLAMENTO Salvo brevi periodi in Svizzera e rari viaggi, Zanzotto ha sempre vissuto a Pieve di Soligo, dove è nato. Una scelta di vita e di poetica: il radicamento in quello che Comisso chiamava il «metro quadrato» comporta per Zanzotto vertiginosi approfondimenti e indagini sul luogo natìo, interpretato come specchio del mondo. Da Pieve si sposta raramente e malvolentieri, anche se deve ricevere premi, ai quali talvolta, per questa ragione, rinuncia. Secondo alcuni vive quasi da eremita, ma lui sostiene, con Montale, che «solo gli isolati comunicano» (e del resto l’isolamento non gli ha impedito di dialogare intensamente con altri scrittori e intellettuali). Diverso l’atteggiamento all’inizio della carriera quando si recava spesso a Milano per farsi conoscere e intrecciare relazioni letterarie.


NOTIZIE «(...) fermo, inpetolà ‘nte i versi», Zanzotto non ha escluso il mondo ma ha fatto in modo che il mondo arrivasse, attraverso le notizie, a Pieve di Soligo. Informandosi tramite i più disparati organi di stampa, a partire dall’immancabile giornale locale «miniera di fatterelli» (e oggi monitorando costantemente Rai News 24), Zanzotto ha introdotto nella sua opera moltissimi elementi di attualità - dall’inquinamento alla droga agli «afterhours» a «google» - che hanno «contaminato» la sua poesia, che agli esordi poteva anche essere letta come lirica pura e astratta. 


PAESAGGIO La parola-chiave fin dalla prima raccolta «Dietro il paesaggio». Fondamentali i paesaggi dipinti dal padre pittore che il piccolo Zanzotto contemplava in casa. Nel proprio paesaggio, secondo il poeta, ogni individuo riconosce se stesso e si orienta nel mondo, fisicamente e mentalmente. Il paesaggio è fonte di emozione poetica e garanzia di equilibrio e di ritrovamento di senso. E’ questo il motivo per cui ogni mutazione, ogni scempio arrecato al paesaggio è ritenuto da Zanzotto destabilizzante per la psiche degli individui e per le comunità. Da qui deriva, fin dagli anni ’60, la necessità per il poeta di battersi per l’integrità dei paesaggi specialmente veneti, resi ormai marginali dalla cementificazione. 


PEDAGOGIA A lungo Zanzotto ha insegnato nelle scuole medie. Dell’insegnamento ha sperimentato l’entusiasmo e la frustrazione, «tra una depressa quotidianità e crucci di teoresi e di ricerca». Si è interessato a lungo dei problemi dell’apprendimento, e della creatività infantile anche in rapporto alle risorse dell’invenzione poetica. Si è interrogato sui rischi della pedagogia, che può trasformarsi in imposizione e rendere «i cervelli un po’ troppo rigidi», ma ha sempre ritenuto centrale il problema della scuola «perché il bambino è la società futura». «Pedagogia» è il titolo di un suo memorabile scritto su Pasolini. 


PETÈL Indica in solighese la lingua giocosa e vezzeggiativa che le madri usano coi bambini. Per Zanzotto è la forma basilare della comunicazione linguistica: un balbettìo dialettale che richiama l’infanzia e al quale è dolce ritornare, lasciandone talvolta affiorare tracce nelle poesie. Tuttavia il «petèl», con le lusinghe di un ritorno alla dimensione rassicurante dell’infanzia, rappresenta un rischio se, per cercarvi protezione, si rinuncia alla difficile ricerca della lingua poetica adatta al presente traumatico e disorientante.

TEMPO Negli ultimi anni il tempo è diventato per Zanzotto un «usuraio atroce» che lo deruba dell’esistenza. Ma in tutta la poesia del solighese il tempo è oggetto, implicitamente o esplicitamente, di riflessione: al microtempo della storia umana Zanzotto affianca spesso il concetto traumatico di «megatempo», che ridimensiona l’uomo e lo fa sentire una presenza irrisoria dentro ai «miliardi di anni» di cui parlano la geologia e la paleontologia. 


TRADIZIONE Significa il legame con il luogo, con la comunità e la famiglia, che si esprime attraverso il dialetto, gli oggetti e i mestieri che rappresentano una civiltà. Tutto è stato spazzato via troppo in fretta, secondo Zanzotto, a partire dagli anni ’60, col boom economico. La forma a volte convulsa della sua poesia rispecchia anche questo enorme trauma subìto dall’Italia e dal Veneto. Recuperi recenti, più o meno pretestuosi, di una tradizione ormai distrutta o museificata sono per Zanzotto da ascrivere alla categoria del «kitsch», cioè del falso di cattivo gusto. 

Matteo Giancotti, Corriere della Sera, 10 ottobre 2011








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