domenica 29 gennaio 2012

Dino Buzzati: lo scrittore dei confini

Torri del Brenta

In occasione del 40° anniversario della morte, vi proponiamo un articolo di Dino Buzzati (1906-1972),  pubblicato sul “Corriere della Sera” nel 1954 e tratto da “Cronache Terrestri”. Racconta una vicenda accaduta alla nota guida alpina Cesare Maestri e all’amico Luciano Eccher nell’estate del 1954 sul Campanile Basso di Brenta.

Il racconto si intitola “Taglia, taglia che almeno tu ti salvi:

Questa è la storia di una delle avventure più paurose che ricordi l’alpinismo dolomitico. È accaduta questa estate [1954, N.d.R.] sul Campanile Basso di Brenta, picco finissimo per il meraviglioso slancio della sua architettura e la difficoltà delle numerose vie di salita. Bellissimo da ogni versante, da ogni versante è stato attaccato e vinto. Ormai non ha più una parete, spigolo, fessura, strapiombo dove non sia passato uomo. La via normale, di quarto grado, è già una scalata rispettabile. Tutte le altre sono difficili.
Alcune toccano il massimo limite delle possibilità cioè il sesto grado. Di sesto grado è appunto il vertiginoso itinerario tracciato da Marco Franceschini e Stenico sullo spigolo Nord-Ovest del cosiddetto Spallone, del Campanile.
È un impressionante pilastro giallo che balza dalle ghiaie per 370 metri protendendo in fuori i baldacchini di terribili strapiombi. Ne volle rifare la scalata, due mesi fa, la guida Cesare Maestri con l’amico Luciano Eccher, di 26 anni. Benché estremamente difficile, l’impresa non era troppo preoccupante per Maestri che ne aveva fatte anche di peggio e per di più da solo, con prodigi di coraggio e di raffinati acrobatismi. In quanto a Eccher, era un compagno degno dì lui e affiatatissimo.
Difatti, pur avendo deviato dalla via originale e incontrato ostacoli anche maggiori, i due superarono brillantemente i primi 170 metri, che sono i più duri. Verso sera Maestri, dopo una delicatissima traversata sull’orlo di uno strapiombo spaventoso, approdò a un piccolo ma sicuro terrazzino. Gli restavano sì ancora 200 metri di parete, ma assai meno impegnativi. La vittoria per così dire, era già in tasca. Meno male, perché la notte stava avvicinandosi e si era messo a nevicare. Maestri piantò tre chiodi assicurandovi la corda e poi disse al compagno di venire.
Eccher compì la traversata e giunse quasi al terrazzino. Maestri, che via via ritirava la corda, vide spuntare la sua testa, e lo calcolava già al sicuro quando fulmineamente il fatto accadde. “Luciano mi guardava sorridendo, – racconta Maestri, – ma all’improvviso ha fatto una curiosa smorfia come se fosse seccato, poi è sparito sotto.”
Nei punti più difficili, dove mancano gli appigli e specialmente sugli strapiombi quando la roccia viene in fuori, gli alpinisti non solo piantano chiodi per poter procedere ma talora a questi chiodi fissano delle staffe per appoggiarvi i piedi. Eccher si sosteneva appunto a una staffa con tutto il peso quando il chiodo si staccò. Le mani non avevano presa sufficiente. Fece un volo.
Di sotto non c’era che il vuoto. Il terrazzino infatti rappresentava l’orlo di un tetto che sporgeva in fuori per alcuni metri. Eccher è tutt’altro che un pancione ma i suoi 70 chili nessuno glieli leva. Lo strappo fu tale da fare saltar via un secondo chiodo poco sopra la staffa e poi un terzo proprio quello su cui Maestri stava “facendo assicurazione”. Partiti i tre chiodi (ne restavano altri due sopra il terrazzino ma vi era fissato il capo opposto della corda, quello dalla parte di Maestri) il peso del corpo proiettato nel vuoto si sfogò tutto sulla spalla e sulle braccia della guida. Fu uno strattone tremendo. Maestri ne restò letteralmente piegato in due e andò a sbattere con la faccia sulle rocce. Nonostante il dolore tenne con tutte le sue forze. Accartocciato quasi a testa in giù sull’aereo terrazzino, semiaccecato dal sangue che gli grondava dalla fronte, le braccia convulsamente strette a trattenere la corda, Maestri per qualche istante si sentì perduto. Poi a poco a poco si riebbe.


Cesare Maestri

«Luciano, Luciano, come va?»
“Bene, bene.” Rispose dal basso l’invisibile compagno con straordinario spirito. “Sei giù molto?” “Saranno 5 metri.”
“E puoi toccar la roccia?” “Impossibile, è troppo lontana.” “Allora cerca di venire su a braccia. Ce la fai?“
“Adesso provo.”
Eccher provò. Ma era un’impresa inverosimile, con una corda così sottile, dopo quel tremendo colpo.
Riuscì a sollevarsi un paio di metri ma poi le mani mollarono. Giù di nuovo a piombo. Maestri, in quella sua assurda posizione, fece di tutto per reggere al secondo strappo. Ma un bel pezzo di corda gli sfuggì dalle mani.
“Luciano! Luciano!”
“Niente paura. Solo che a venir su a forza di braccia io non ce la faccio.”
“E adesso quanto sei giù?”
“Adesso saranno 10 metri.”
Un lungo silenzio tra gli alterni mugolii del vento. La neve veniva giù sempre più fitta. Poi la voce di Maestri: “Luciano, ho paura che non resisto più.” “Cesare, – fu la risposta, – taglia la corda che almeno tu ti salvi!”
Questo poi mai, pensò Maestri.
Con sforzo supremo riuscì a sollevarsi un poco così da mettersi in ginocchio.
“Cesare! Cesare!” “Cosa c’è?” “Prova a calarmi per tutto il resto della corda. Forse riesco a toccare le rocce» (era soltanto un’illusione). “Aspetta, adesso provo.”
Fu perché Maestri mosse il piede sotto il quale la corda si era incastrata? Fu perché le sue mani non ressero? Fatto sta che ad un tratto non riuscì più a tenere. Udì il sibilo della fune che strisciava a velocità furiosa sull’orlo del terrazzino, una forza irresistibile lo succhiava nell’abisso.
Guardò i due chiodi superstiti coi due relativi moschettoni a cui era fissata con un’asola la corda. Avrebbero tenuto?
Poi venne il colpo. La corda si tese spasmodicamente. I due chiodi si incurvarono come se fossero di burro, per una minima frazione di secondo sembrarono schizzar fuori dalla fessura dove erano infissi. “Adesso volo anch’io” pensò Maestri. Ma i chiodi miracolosamente resistettero.
Di sotto, Eccher aveva compiuto il terzo volo. Questa volta fino a completo esaurimento della corda. Un tuffo di altri 20 metri buoni. Precipitando guardò in su. Si sentì serrare atrocemente in vita. Rimbalzò in su tre metri almeno. “Impossibile che i chiodi tengano” fu il pensiero “ora vedo schizzar fuori anche Maestri. Ci sfracelleremo insieme.” Poi fu una quiete inverosimile. Lentamente Eccher prese a girare su se stesso. Si chiamarono, cercando di parlarsi.
Ma a quella distanza, più di 30 metri, era difficile. Intanto si era fatto buio. Maestri, sul quale non gravava più il peso del compagno, sostenuto ormai dai chiodi, si levò finalmente in piedi e misurò la situazione. Di tirar su Eccher a forza di braccia neanche a pensarci. L’unica tentare di proseguire lui da solo fino alla vetta scendere dalla parte più facile e andare a chiedere soccorsi. Ma avrebbe fatto in tempo? Sospeso a una corda per la vita, Eccher avrebbe resistito? In uguali situazioni, più di un alpinista era morto per soffocamento. Per fortuna Eccher è un ragazzo di raro sangue freddo e ottimismo.
Invece di lasciarsi prendere dal panico, si industriò per rendere il meno tormentoso possibile il suo stato. Si passò una staffa intorno al torso così da poter appoggiare la schiena. Altre due staffe le fissò alla corda in modo da potervi introdurre le gambe e così restar quasi seduto.
Poi si disse: “Se Maestri va a cercar soccorsi, posso vivere tranquillo.” Mentre continuava a nevicare, Maestri slegatosi, gridò a Eccher: “Arrivederci”, e riprese la salita. Come abbia fatto, con quel buio pesto, a superare 200 metri di buon quinto grado, per noi resta un mistero.
Giunto sullo spallone, contornò il Campanile Basso per la larga cengia battezzata scherzosamente stradone provinciale. E stava per calarsi lungo la via comune quando, affacciatosi alla parete Sud, vide giù una luce che avanzava sul sentierino che porta all’attacco. Chiamò. Era suo fratello Carlo che, preoccupato del ritardo, era salito dal rifugio Tosa. “Corri al rifugio, – gli gridò Maestri, – fa venire su quanti più è possibile con tutte le corde che ci sono. Ma prima va sotto lo spigolo e avverti Luciano che i soccorsi arriveranno; che si faccia coraggio!” Infatti ciò che più temeva era che l’amico si lasciasse vincere dalla stanchezza e dallo scoraggiamento; nel qual caso sarebbe stato perduto.
Ora non restava che aspettare. Maestri riuscì a scovare sulla cengia un buco abbastanza riparato e, meraviglioso esempio di equilibrio nervoso, ci fece una bella dormita: ciò che era la cosa piu opportuna dopo il travaglio sofferto e in vista di quello che gli restava da soffrire.
Alle 2,30 di notte le guide Bruno e Catullo Detassis e Giulio della Giacoma con tre bravi rocciatori, Mario Fabbri di Trento, Dado Morandi e un altro di Roma, erano sullo stradone provinciale. Al lume incerto delle torce elettriche, dalla sommità dello spallone, Maestri, Catullo Detassis e Morandi furono calati per 110 metri. Maestri e Detassis scesero quindi per loro conto a corde doppie fin sopra il terrazzino, piantarono una bella quantità di chiodi e calarono subito a Eccher due corde, per mezzo delle quali, a trazione alterna, cominciarono a tirarlo su. A ogni strattone guadagnavano una ventina di centimetri.
Il sollevamento durò tre ore e mezzo. Alle 9 del mattino finalmente Eccher toccò il terrazzino. Era pallido come la morte, ma ancora in buone condizioni. “Fa un curioso effetto – disse – rimettere i piedi sulla terra”.

Era rimasto appeso nel vuoto, in maniche di camicia, con un tempo da lupi, 13 ore giuste.

Dino Buzzati


Più di ogni altra cosa erano forse le sue capacità da esploratore, quelle che lo inducevano a spingersi sempre un po’ più in là, fino ai confini, fino a dove la norma cambiava natura e cominciava una storia diversa, ignota ma sempre e comunque immaginabile.
Sì, Dino Buzzati era lo scrittore dei confini. Oggi si compiono quarant’anni esatti dal giorno in cui trovò la morte nella sua Milano, la città che lo vide crescere, studiare e affermarsi come giornalista e grande narratore. Quarant’anni non sono né pochi né tanti, quando si tratta di storia della letteratura, ma certo la letteratura che si fa oggi in Italia è molto differente da quella che si faceva allora, e ragionare sui lasciti e sul rilievo di certi autori appare oltremodo complicato.
Ad esempio si dice spesso che Buzzati non fu mai apprezzato abbastanza, nel nostro paese, che la sua fama all’estero è superiore, più solida. Può essere vero, ma può pure contare poco. Perché la società letteraria internazionale ha smesso da tempo di bastare a se stessa, e in fondo non si capisce più troppo bene chi sia deputato a dare patenti di sorta – Le Monde ha inserito Il deserto dei Tartari tra i cento migliori libri del Novecento, alla posizione ventinove, per dire; ma tra i primi dieci, beh, c’erano sette francesi.
In altre parole: Buzzati è un patrimonio della narrativa italiana e mondiale, e riconoscerlo è meno meritorio che semplice. Ciò non significa che fare esercizio di memoria sia superfluo o banale, tutt’altro. E al di là di tanti discorsi un po’ oziosi sarebbe bello sapere quanto e come si studia a scuola oggi, uno come Buzzati. Sarebbe bello censirli, i ragazzini invogliati o costretti a leggere Il deserto dei Tartari o i suoi racconti, sarebbe bello sentire cosa hanno da dirne loro – altro che società letteraria.
Di sicuro quando leggiamo Buzzati ci sentiamo tutti un po’ bambini. I suoi guerrieri, i suoi re, i suoi animali, i suoi giochi: tutte maschere che coprono un’esattezza narrativa estrema, quasi esasperata, che entra in testa senza quasi dare la possibilità di accorgersene. Qualcosa di simile, forse, a ciò che accade col Calvino di mezzo, quello degli antenati e di Marcovaldo, ma con una buona dose di leggerezza in meno – e con in più, forse, un tratto più marcatamente immaginifico in qualche maniera affine al suo talento riconosciuto di pittore e illustratore.
In realtà l’attrazione per le sue storie, frutto di una mescolanza continua e sapiente tra reale e fantastico, è immediata quanto per certi versi illusoria. Perché poi dietro agli scenari da fiaba, agli apologhi e alle visioni ci sono meccanismi fondati su ingranaggi e incastri perfetti, e risvolti morali e tensioni intellettuali che con le fiabe hanno raramente a che vedere. Altra cosa che si dice di Buzzati, non a caso, è che nella sua scrittura, nel suo essere vertiginoso e speculatorio, molto deve a Kafka.
«La mia croce», pare ebbe a definirlo lui stesso. L’ossessione per l’insondabile e per il punto esatto in cui la mente umana deve alzare le braccia e arrendersi: questo è il tratto comune più evidente tra i due. È qui che torna l’idea di confine, di frontiera, come quella presidiata dalla Fortezza Bastiani, immobile e misteriosa, come la soglia fatidica tra esistenza e diritto del Processo o quella che segna il passaggio dall’umanità alla bestialità nella Metamorfosi. Allo stesso modo, il principe protagonista del primo dei Sessanta racconti di Buzzati intraprende un viaggio interminabile e di fatto impossibile proprio nell’intento di giungere ai bordi del regno governato dal padre, allo stesso modo il nobile lebbroso dell’Uomo che volle guarire non riuscirà mai, nonostante anni di preghiera e sacrifici, a trovare l’ultima porzione di forza necessaria per poter valicare un’altra soglia, stavolta materiale, quella del lebbrosario in cui pure aveva trovato la guarigione.
Spesso nei romanzi e nei racconti di Buzzati capita di trovarsi alle prese con una sorta di corto circuito che rimette in discussione quanto dato per buono in precedenza, sia una malattia o un intoppo triviale o un’epifania di qualche genere. E a quel punto non resta che prendere atto, e provare a riflettere. Molte questioni, poche risposte, in Buzzati, perché anche quando i cerchi si chiudono e le morali sottese dalle trame della narrazione emergono con un certo nitore in fondo tutto rimane sospeso. A volte, piuttosto, si tratta solo di ricominciare a girare: una trottola, o un gorgo inarrestabile, o anche solo un trucco, un effetto ottico, fa lo stesso.
Un’ultima cosa che si tende a dire riguardo a Buzzati è che diede il meglio di sé come scrittore di racconti, sul breve anziché sul lungo. Anche in questo caso, convenire è plausibile quanto probabilmente sterile. Ovvio che per la loro stessa natura – molte volte sono brevissimi, non più di cinque o sei pagine – i suoi racconti rispondo alla perfezione a un modello narrativo basato sul paradosso e sulla distrazione, ovvio che i giochi di prestigio, per funzionare, hanno bisogno di durare poco.
Senza contare che nel 1958 i suoi Sessanta racconti gli valsero anche il premio Strega, e quella era un’epoca in cui vincere uno Strega significava veramente qualcosa. E senza contare anche che la sua stessa bibliografia parla in maniera piuttosto eloquente: in trent’anni, dal 1933 al 1963, Buzzati scrisse solo sei romanzi, l’ultimo dei quali, Un amore, risale a nove anni prima della morte. Insomma è vero, Buzzati fu soprattutto autore di testi brevi, e d’altronde il suo mestiere fu sempre prima di tutto quello di cronista, un cronista buono più o meno per tutto e per tutte le stagioni.
Ma è anche vero che le sue prove da romanziere furono tutte notevoli, ed è soprattutto vero che Il deserto dei Tartari, nella sua poderosa forza straniante, non può che essere considerato uno dei massimi esempi di romanzo italiano del Novecento. Il bello di Buzzati in definitiva sta proprio nel fatto che non occorre sforzarsi più di tanto, non serve scervellarsi per capire chi abbia o non abbia ragione sul suo conto, perché la sua scrittura semplice, limpida, arriva alla mente ancor prima che l’inchiostro arrivi agli occhi. E ci disorienta, ancora oggi, ci permette di riconoscere in lui la nostra stessa angoscia per ciò che non ci sappiamo spiegare e per i confini che non sappiamo vedere, come bambini ingolositi e increduli che perlomeno capiscono di essere in buona compagnia.

fonte: Europa quotidiano, Giovanni Dozzini,  28 gennaio 2012

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