domenica 22 aprile 2012

Partigiani della montagna


In occasione delle imminenti celebrazioni per il XXV aprile, abbiamo pensato di dedicare una serie di post  all'esperienza partigiana vissuta sulle montagne. Iniziamo con la pubblicazione di uno scritto del giornalista Giorgio Bocca, Comandante della Decima Divisione Giustizia e Libertà, scomparso nel 2011.

A ripensarci sessant’anni dopo, ci chiediamo come sia stata possibile quella guerra di liberazione. Non la liberazione del 25 aprile 1945, dell’insurrezione, della discesa nella pianura e nelle città, ma la liberazione di ciascuno di noi dal provincialismo, dal fascismo, dal perbenismo piccolo-borghese. 
La prima e la più importante cosa che i libri di storia non spiegano, che i documenti non raccontano della guerra partigiana è questo stato d’animo di libertà totale ritrovata proprio negli anni in cui un giovane normalmente conosce il suo destino obbligato: quale posto, quale lavoro, quale ceto, quale donna sono stati preparati e spesso imposti per lui; quale sarà la sua prevedibile vita, quali vizi dovrà praticare per cavarsela, dove troverà il denaro per campare. 
E invece, d’improvviso, in un giorno del settembre del ’43, si ritrova totalmente libero, senza re, senza duce, libero e ribelle, con tutta la grande montagna come rifugio.
Libero anche dal denaro e dalla famiglia. Si, certo, la famiglia e i suoi affetti rimangono, ma che sia ben chiaro, a casa non si torna fin quando dura la meravigliosa avventura della libertà, dell’essere padrone del proprio destino.
Alea iacta est, avremmo potuto dirci quel pomeriggio di settembre in cui varcammo non il Rubicone ma la Stura di Demonte, diretti alla montagna della Val Grana, verso il Comboscuro degli Occitani.
Libertà e intransigenza. Noi giovani eravamo stati, nel fascismo morente, dei possibilisti, dei tira a campare, non più fascisti, cauti anti-fascisti, ma è quell’8 settembre che ci ha fatto rinascere, ci ha dato un’identità nuova, estrema, irriducibile. La normalità è scomparsa, gli altri è come non ci fossero più, restiamo noi e loro, i primi nuclei partigiani come piccole stelle, piccoli fuochi sulle montagne e loro, i tedeschi, che bruciano i nostri villaggi come nel passato i mori, i gallo-ispani, le soldataglie del Delfino. Noi e l’occupante, in una guerra così impari da esaltarci, da indurci, da farci sembrare nemici tutti quelli che hanno accettato l’occupazione: anche quelli che lavorano per i tedeschi, anche gli impiegati del distretto o del comune.
Quello stato d’animo! Poi viene la storia e, come tutte le storie, un va e vieni senza ordine: gli uomini e le armi della IV armata arrivata dalla Francia a sciogliersi nel Cuneese, breve illusione al cui segue il tutti a casa irresistibile, poi la voce di un prossimo sbarco degli alleati anglo-americani in Liguria, subito smentito. E invece arriva la guerra totale contro un nemico che è, come dice Benedetto Croce, “non l’umano avversario / delle umane guerre / ma l’atroce presente nemico / dell’umanità”: Boves incendiata, gli ebrei di Meina fucilati sul lungolago, il gruppo ribelle di San Martino presso Varese sterminato.
Contro il terrore non c’è che il terrore. Chi, a distanza di soli sessant’anni, giudica la Resistenza dimentica la prova durissima alla quale è stata sottoposta. Nei territori occupati cade il rispetto per le donne e per gli infanti. La guerra di Hitler non ha limiti, non c’è speranza di ammansirla, non resta che combatterla.
I giorni della libertà ma anche della necessità. I mille che salgono in montagna nel settembre del ’43 devono imparare tutto, e si impara presto quando la storia esce dalle sue forme consuete e mostra la sua faccia feroce.
La politica partigiana
Che cosa era la politica in quei venti mesi? Era le cose concrete della vita, come la ricerca del potere, la rivalità delle formazioni, l’occupazione del territorio, il rapporto con i parroci, con la popolazione, con la sussistenza, con la ricerca delle armi ma come in un sogno, il sogno in cui tutto è possibile e coesistente, una società liberale dentro una rivoluzione buona e virtuosa, economia di mercato e socializzazione, democrazia per tutti ma solidarietà e vigilanza partigiane.
Ognuno poteva parlare, promettere, mettere assieme i diversi: intanto le verifiche venivano rimandate alla fine della guerra. I garibaldini legati al Partito comunista cantavano “Evviva il comunismo, evviva la libertà” come se fossero la stessa cosa. Noi giovani non sapevamo cosa era stata la democrazia pre-fascista e neppure che cosa era il comunismo di Stalin. Nella Resistenza virtuosa e creatrice in cui credevamo, in cui dovevamo credere per tenere insieme i nostri uomini, non c’era posto per la storia delle delusioni e delle deviazioni, per la storia come era stata. La lezione del passato veniva cancellata per lasciare libera la speranza del presente. Non ho conosciuto un solo comunista, di quelli che erano stati in Russia o in Spagna al tempo del Grande terrore, che lo ricordasse, che ci mettesse in guardia e neppure uno dei democratici che avevano aperto la strada al fascismo, che aveva conosciuto i ministri giolittiani “della malavita” come li chiamava Salvemini, che ci parlasse del mercato delle vacche elettorale, che ci avvisasse che esisteva una questione meridionale, un’Italia disunita.
E non perchè volessero ingannarci, ma perchè anche loro erano convinti che la guerra partigiana avrebbe aperto una nuova storia, perchè anche loro vivevano quell’eccitante sospensione della vita reale, della storia reale come capita quando si apre una nuova utopia.
Nobilitava quell’avventura la presenza della morte, quotidiana, inevitabile e l’assenza dello sterco del diavolo, il denaro. Tutto ciò che ci occorreva – armi, farina, carne, casa – o era preda bellica o veniva acquistato con i buoni del Comitato di liberazione nazionale, con le donazioni degli industriali, con fondi trovati nella cassa della IV armata che era stata di presidio alla Francia del sud, e persino con il contrabbando di denaro con la Svizzera. Per mesi andai in giro senza una lira in tasca, come si diceva di Gianni Agnelli, a cui tutti davano e di cui tutti si fidavano.
La nostra politica intransigente con il nemico tedesco o fascista era nelle nostre formazioni tollerante e ottimista. I quadri del Partito comunista avevano con i loro uomini e con noi di altre formazioni un rapporto flessibile. Si provavano ad introdurre nell’innafferrabilità del partigianato alcune direttive elementari del leninismo, ma si fermavano appena capivano che erano controproducenti perchè essere garibaldini non significava essere comunisti, più spesso mossi dalla casualità, dalle amicizie.
Basti ricordare che il comando dei garibaldini piemontesi era affidato ad un gruppo di ufficiali di cavalleria che avevano seguito in Val Po il comunista in guanti bianchi Pompeo Colajanni, antifascista siciliano.
Come aveva intuito Vittorio Foa, la politica partigiana era la politica delle larghe alleanze democratiche sperimentate già nella guerra di Spagna. In sostanza un riformismo socialdemocratico che per la prima volta annullava le millenarie divisioni di classe facendo rientrare tra i cittadini a pieni diritti gli operai e i contadini. Quella fabbrica della democrazia che era la guerra partigiana, la solidarietà tra combattenti di un comune nemico avevano cancellato i pregiudizi e le opposte propagande. Ci si poteva fidare di un comunista come di un badogliano, il monarchico reazionario Edgardo Sogno rischiava la vita per liberare Ferruccio Parri, il capo di “Giustizia e Libertà”, io appena arrivato nelle Langhe dalla montagna trovavo naturale fare visita di cortesia al maggiore Mauri, capo dei fazzoletti blu monarchici.
Lo spirito di corpo era scambiato spesso per una scelta politica ma a nessuno di noi veniva in mente di interrogarci, di confessarci sulla scelta di una formazione. La nostra politica era una mescolanza di tradizione e di rinnovamento, di recupero del passato e di società nascente. Ci presentavamo alla gente come gli innovatori dell’ordine costituito ma senza ben capire come, stampavamo giornali in cui si parlava di democrazia, di liberalsocialismo, di comunismo, senza sapere bene di che si trattasse ma con la convinzione che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi.
I comunisti avevano rispetto agli altri una superiore esperienza di cospirazione e di metodo del potere. Furono i primi ad usare in modo spregiudicato l’arma della propaganda, a chiamare brigate, divisioni i loro gruppi numerosi ma male armati e male comandati. Ma dovemmo seguirli perchè alla propaganda non si resiste, fummo per osì dire costretti a dare nomi altisonanti anche alle nostre formazioni, chiamarle Divisioni alpine “Giustizia e Libertà”, opporre ai loro fazzoletti rossi quelli verdi come le mostrine degli alpini, il mito delle penne nere contro quello dell’eroe dei due mondi. Ma nella moderazione dei quadri comunisti c’era altro che non conoscevamo. L’ombra dello stalinismo che li aveva seguiti in Russia e in Spagna.
Guerriglia e guerra grossa
Il 27 aprile 1945 a Cuneo già liberata ci arrivò la notizia che le SS delle divisioni Hermann Goring in ritirata dalla Liguria si lasciavano indietro incendi e morti. Su una decina di camion partimmo in direzione Marene in tempo per vedere sfilare, diretta a nord, la retroguardia, una cinquantina di carri Tigre dipinti di verde e giallo. Ogni tanto sparavano una cannonata su una cascina, su un filare di pioppi. Non c’era altro da fare che lasciarli passare. La divisione corazzata non poteva essere fermata e non poteva fermarsi, superò Torino, e andò alla cieca per le colline del Canavese, si fermò e riparti per giorni in attesa che arrivassero gli avversari della guerra grossa, gli alleati anglo-americani, con dei carriarmati grandi come i loro. Noi della guerriglia, con i nostri fucili e le nostre bombe a mano avevamo finito la nostra parte. Ma i critici e i diffamotori della Resistenza questa distinzione tra guerriglia e guerra grossa, per malafede o perchè non c’erano, non la vogliono riconoscere, continuano a ripetere cose ovvie, stupide: non siete voi che avete vinto la guerra. Che grande scoperta! Certo che non l’abbiamovinta noi la guerra grossa, ma nella guerriglia la nostra parte l’abbiamo fatta. Solo in rare occasioni guerriglia e guerra grossa si confusero, nelle grandi battaglie dell’agosto del ’44 per il controllo dei vallichi alpini per la Francia e alcune furono anche vinte: in Valle Stura una divisione tedesca segnò il passo per cinque giorni e quando potè proseguire gli Alleati erano già nelle Basse Alpi e la fermarono con le artiglierie pesanti.
Nella regola la distinzione era netta, la guerriglia iniziava dove finiva la pianura, le strade asfaltate, i ponti, i telefoni e cominciava la macchia, la salita, il bosco. Lo avevo capito nel primo rastrellamento in Val Grana. I tedeschi cominciarono come nella guerra grossa, due o tre cannonate dimostrative contro il castello di Valmala, altre cannonate sopra di noi ci passarono sopra la testa come dei vagoni merci, ma da Monterosso in su cominciava la guerriglia, dovevano scendere dai carriarmati e venire su per le pietraie e fù li che si capì che anche loro, gli onnipotenti, avevano il fiato grosso. Una pattuglia si fermò sotto di noi, il sergente che la guidava si tolse l’elmetto per asciugarsi il sudore; era un riservista sui quarant’anni, alla prima raffica ruzzolò giù per la ripa: scappavano anche loro. Nella guerriglia il loro coraggio spariva: al posto che piombarci addosso all’improvviso si facevano vedere, i loro accerchiamenti erano annunciati da inutili colpi di mortaio, sembrava che le loro colonne apparissero sulle creste proprio nel controluce che li rendeva visibili, molti dei loro reparti avevano visto l’inferno in Russia o in Africa, nella guerriglia si risparmiavano. Comunque erano quanti bastavano per noi armati di fucili e di bombe a mano.
Quelli che dicono adesso: “Non l’avete vinta voi la guerra grossa!”. Ma che bravi! Hanno mai saputo che cosa è stata la nostra disperata, ossessiva ricerca di armi? Raccolte sotto gli occhi dei tedeschi nei magazzini dove i soldati della IV armata le avevano abbandonate alla rinfusa, Thompson, mitrailettes francesi. Anche parabellum russi con poche munizioni da fare fuoco per una ventina di minuti. La mancanza di munizioni ci tormentò per tutti i venti mesi, solo nella primavera del ’45 piovvero dal cielo abbondanti.
Ma li abbiamo tolto lo spazio, gli abbiamo mangiato il terreno, gli abbiamo chiusi nelle città. La montagna delle Alpi e degli Appennini è sempre stata terra da bandengebiet, da starci lontani. Nell’estate del ’44 siamo usciti per così dire dalla macchia, abbiamo liberato le grandi repubbliche, dalla Carnia a Montefiorino, ad Alba, nelle valli cuneesi, nell’Ossola. La repubblica dell’Ossola dura quarantaquattro giorni, dal 10 settembre al 24 ottobre del 1944, la più nota delle quindici repubbliche della Valle del Po.
Dell’Ossola si parla nel mondo, è una valle che confina con la Svizzera, in cui possono arrivare giornalisti e politici del mondo libero, è una valle attraverso la quale arrivano ai tedeschi materiali bellici, in cui ci sono fabbriche. Le difese tedesche e fasciste cadono in una settimana, è libero un territorio che va dal Monte Rosa al Canton Ticino con centrali elettriche, fabbriche chimiche e metallurgiche. Un duro colpo per i tedeschi, la rivelazione che ormai sono troppo pochi e troppo deboli per occupare l’intera Pianura padana.
Il contributo alla guerra grossa dei partigiani non è irrilevante come si dice oggi a sesant’anni di distanza dal ritorno in forze della destra berlusconiana e dal fascismo rimasto nel ventre molle del paese.


La “zona grigia”
Un’altro cavallo di battaglia dei nemici della Resistenza è la “zona grigia”, cioè quella maggioranza della popolazione che non partecipò direttamente alla Resistenza. Questo è il vizio delle storie di quelli che non c’erano, scritte sui documenti d’archivio, che sono di parte anche loro ma che vengono considerati, chissà perchè, scientifici, inoppugnabili. Chi c’era sà che quella “zona grigia”, proprio grigia non era, lo sà da quel giorno del novembre 1943 quando su un camion scoperto passammo in armi e giacche a vento a fianco della tranvia tra Saluzzo e Cuneo e a tutti i finestrini, nel gelo, c’era gente che ci salutava e ci festeggiava. Non appartenevano alla “zona grigia” i montanari che ci restarono amici anche se i tedeschi avevano bruciato le loro case.
Gli storici della “zona grigia” dovrebbero leggersi la memorialistica dei combattenti di Salò, le loro descrizioni del deserto che gli accoglieva nei villaggi, le persiane chiuse, la gente tappata in casa. Di spie se ne sono trovate nelle città, ma nelle terre dei ribelli non ce n’erano e se c’erano arrivavano da fuori. Ricordo nelle Langhe uno che diceva di vendere lucido da scarpe, di essere giunto a Monforte per trovare un amico, ma non sapeva dire il nome o l’indirizzo, o il frate venuto a benedire il nostro comando a Costigliole, e lo vedemmo due giorni dopo alla testa di un reparto tedesco. C’erano anche delle ragioni concrete perchè la gente stesse dalla nostra parte: parlavamo la loro lingua, eravamo in pochi da nutrire, gli proteggevamo dagli ammassi e dalle requisizioni. Ma c’era anche quella cosa che solo l’invasore ti rivela: la patria, il luogo in cui sei nato, per cui la tua è una guerra di casa. E allora capita che al funerale di un partigiano vada tutto il paese incurante dei fascisti che li fotografano o che annotano il loro nome.
La “zona grigia” non c’era nelle grandi repubbliche partigiane che facevano esperienza di democrazia, nessuno che rifiutasse di essere messo nelle liste elettorali, negli incarichi pubblici. Non erano massa grigia i parroci di campagna al completo con noi nonostante il diverso avviso di alcuni vescovi, spece in Emilia, dove le lotte tra borghesi e contadini erano state cruente e dove ci sarebbe stata, alla fine della guerra, una resa dei conti che avrebbe coinvolto anche una parte del clero.
Chi c’era nei giorni della Liberazione, delle sfilate partigiane, sà che intere città furono in festa, in tripudio, sa che i balli e i canti per festeggiare il gioioso aprile durarono un estate intera. Tutti nella montagna e nelle campagne sapevano dove erano i nostri rifugi, i depositi delle nostre armi, del nostro grano, ma li trovammo quasi sempre intatti a rastrellamenti finiti. Dove erano i dubbiosi della “zona grigia” quando scendemmo in città tra due ali di folla e la guerra non era ancora finita, gli alleati sarebbero arrivati solo cinque o sei giorni dopo, ma i fascisti erano in fuga e non si vedevano italiani che li sostenessero? La “zona grigia”? Ma si sono dimenticati i suoi sostenitori dei rischi mortali che corsero gli italiani per dare rifugio e aiuto ai ribelli, per nascondere i prigionieri alleati, gli ebrei perseguitati? I fascisti c’erano, e sessant’anni dopo i loro figli e nipoti sono tornati al governo. Ma è stato un delitto lasciar cadere quell’occasione di una guerra di popolo con il favore del popolo.
La Resistenza cancellata
C’è una campagna di denigrazione della Resistenza: diretta dall’alta, coltivata dai cortigiani. Il loro gioco preferito è quello dei morti, l’uso dei morti: abolire la festa del 25 aprile e sostituirla con una che metta sullo stesso piano partigiani e combattenti di Salò, celebrare insieme come eroi della patria comune Giacomo Matteotti ucciso dai fascisti e il filosofo Gentile, presidente dell’Accademia fascista, giustiziato dai partigiani, onorare insieme le vittime antifasciste della risiera di San Sabba e quelle delle foibe titine. Proposte da comitati di reduci che probabilmente non hanno mai sentito parlare dei lager in cui i fascisti, prima e dopo l’ammistizio, hanno chiuso decine di migliaia di cittadini colpevoli unicamente di essere di etnia slovena.
L’argomento delle nostre deportazioni è talmente poco conosciuto che il presidente del consiglio Berlusconi può permettersi di parlare di un Mussolini “che mandava gli antifascisti in vacanza sulle isole”. L’uso dei morti per dimostrare che le idee per cui morirono gli uni equivalgono quelle per cui morirono gli altri è inaccettabile. La pietà per i morti è antica come il diritto dei loro parenti e amici a piangerli, ma non è dei morti che si giudica, ma di quando erano vivi e stavano a fianco degli sterminatori nazisti. Ricostruiamo l’unità della patria, dicono, dimentichiamo la guerra civile, sostituiamo alle fazioni l’unità della democrazia. Ma la democrazia dov’è? Che democrazia è questa autoritaria che si va affermando nel nostro paese? Ai suoi sostenitori basta che il governo non apra i suoi lager, che non fucili gli oppositori, che non soffochi tutte le voci critiche per gridare che la democrazia è salva.
Ma la mutazione autoritaria è sotto gli occhi di tutti, anche dei rassegnati o indifferenti: i personaggi della televisione invisi al potere cacciati o tacitati, gli autori di libri all’indice berlusconiano esclusi dalla televisione e ignorati dai giornali, i dirigenti di qualsiasi ufficio o istituzione, dalle fiere campionarie agli enti lirici, scelti dal padrone, i disegnatori satirici ostili al potere emarginati, i cortigiani imposti.
E anche la corruzione più pesante e sfacciata, i prestiti bancari, i ricatti della pubblicità, le concorrenze mafiose. Diciamo grazie all’Europa se non siamo ancora tornati al fascismo dichiarato o a qualche sua variante, diciamo grazie alla signora Berlusconi che ha avuto un nonno truicidato a Marzabotto dai nazisti e dai fascisti. La democrazia non si è arresa, il suo edificio è saldo e occorre del tempo per smantellarlo, ma già sta allargandosi un area sorda che assenda il regime, una buona parte degli italiani sembra indifferente alle riforme berlusconiane che in realtà sono delle controriforme che sistematicamente picconano i fondamenti della democrazia.
Quasi tutti i grandi giornali hanno cambiato faccia, ripudiato la tradizione democratica, ricattati dal potere economico, dalla pubblicità. Come gli industriali degli anni venti che aprirono la strada al fascismo. Lo adottarono anche a costo, come diceva Trockij, di farsi prendere a calci in faccia. Ed è tornata anche la fabbrica della calunnia. Ci sono uffici, agenzie di informazione specializzate nella raccolta di immonnezze da lanciare sugli oppositori, la serie di rivelazioni inventate o esagerate, una vera e propria disinformatsija di regime.


La resistenza archiviata
Secondo alcuni revisionisti come il senatore Pera, seconda carica dello Stato, l’antifascismo è da archiviare tra i robivecchi e la Resistenza un mito inventato dai comunisti. Insomma, quelli che come me erano in montagna dall’8 settembre 1943 e che il 19 novembre di quel mese erano con Duccio Galimberti a Boves incendiata dalle SS del maggiore Peiper stavano in un mito.
Quarantacinquemila partigiani caduti, ventimila feriti o mutilati, uno dei più forti movimenti di Resistenza d’Europa, gli operai e i contadini partecipi per la prima volta di una guerra popolare senza cartolina precetto, una formazione partigiana in ogni valle alpina o appenninica, la sofferta gestazione di un’Italia diversa: ed ecco che sessant’anni dopo dei professorini o dei diffamatori ci avvertono che era tutta una invenzione, una favola, un mito. Ma questo mito non se lo sono inventati dei comunisti esperti di propaganda politica, quel mito è nato dai fatti di cui parlano le lapidi e i monumenti in tutte le città italiane. la distinzione tra l’antifascismo e la democrazia è una falsa distinzione. Assistiamo ad un revisionismo reazionario che apre la strada alla democrazia autoritaria, da noi e nel resto del mondo. Uno di quei cicli storici che dimostrano che anche la libertà ha le sue stagioni. Non a caso nel presente il globalismo economico altro non è che un ritorno al colonialismo con cui l’antifascismo dello stato sociale, delle riforme democratiche non ha nulla da spartire. C’è stata una mutazione capitalistica, una rivoluzione tecnologica di effetto obbligato: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri ed emarginati. E’ questa la ragione di fondo per cui la Resistenza e l’antifascismo democratico appaiono sempre più sgraditi, sempre più fastidiosi al nuovo potere. Padroni arroganti e impazienti non accettano più la legge uguale per tutti, la legge se la fabbricano ad personam con i loro parlamenti di Yes-man. In questo stato del potere è riapparso il ventre molle del paese, l’eterno qualunquismo che la Resistenza credeva di avere ripulito. Alla luce di queste mutazioni, di questi accadimenti, la pubblicazione di questo piccolo libro di sessant’anni fa ha una ragione molto semplice: ricordare come sono andate le cose nel periodo più nero e umiliante della nostra storia, ricordare quella forte pagina di solidarietà e di civile dignità che oggi appaiono quasi impossibili.

Giorgio Bocca, 2004,  prefazione al libro “Partigiani della montagna”, da lui scritto e pubblicato per la prima volta nell’ottobre 1945.

Nessun commento:

Posta un commento