martedì 16 ottobre 2012

16 ottobre 1978: 34 anni dopo


In occasione del 34° anniversario dell'elezione al papato di Karol Wojtyla, pubblichiamo i ricordi del celebre vaticanista del Corriere della Sera Luigi Accattoli.

- Sono passati 34 anni dall’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyła. Come ricordi oggi quel giorno?
Come una grande sorpresa, la più grande della mia vita professionale. Un’improvvisazione della storia o della Provvidenza che ha allietato molti già solo per la sua novità, ha segnalato la possibilità di rinnovarsi della Chiesa di Roma e ha accelerato la caduta dei regimi comunisti. Ovviamente nulla ne potevamo sapere, al momento, di questo sviluppo, ma si capiva che molto di nuovo vi era in quell’elezione e quell’avvertenza aveva qualcosa di esaltante, di liberante.

- Raccontaci la “trafila” dei nomi, la voce (sottolineata poi dal film di Giacomo Battiato: “Karol – Un uomo diventato papa”) che dovessero puntare sul suo primate, il cardinale Stefan Wyszyński, però troppo anziano…
Karol Wojtyła fu eletto all’ottavo scrutinio, con 99 voti su 111: dunque un’elezione travagliata, stante che Giovanni Paolo I era stato eletto dallo stesso “collegio” un mese e mezzo prima al quarto scrutinio e che Benedetto XVI verrà eletto, 26 anni dopo, anch’egli al quarto scrutinio. Tra le indiscrezioni sull’andamento delle votazioni, la più attendibile è quella attribuita al cardinale guatemalteco Mario Casariego e riferita da Giulio Andreotti: il cardinale Wojtyła avrebbe avuto 11 voti al sesto scrutinio, 47 al settimo e 99 all’ottavo. I primi cinque scrutini erano stati dominati dai cardinali italiani Giuseppe Siri e Giovanni Benelli, arrivati – pare – a 48 e 30 voti. Il passaggio a un non italiano era stato preparato, nella notte, dal cardinale austriaco Koenig, con l’aiuto dello statunitense Krol, del tedesco Ratzinger e dell’italiano Pellegrino. Non credo sia vera la voce che in un primo tempo i cardinali avessero pensato al connazionale Wyszyński. È vero invece che è stato decisivo per l’accettazione dell’elezione da parte del cardinale Wojtyła un suo colloquio con il cardinale Wyszyński, avvenuto forse a fine mattinata, quel lunedì 16 ottobre, prima della pausa del pranzo, cioè tra il sesto e il settimo scrutinio. Così quel colloquio l’ha riferito lo stesso Giovanni Paolo in un’omelia nella Cappella Sistina, durante la prima celebrazione dopo il restauro degli affreschi di Michelangelo, l’8 aprile 1994: «In questo luogo il cardinale primate di Polonia mi ha detto: “Se ti eleggeranno ti prego di non rifiutare”».

- Come visse lui, quell’inattesa elezione?
Con ansia, come segnalerà in più occasioni. Per le implicazioni geopolitiche: come cioè avrebbe preso la sua elezione il Cremlino. Ma anche per l’incognita di come l’avrebbero presa i romani e gli italiani, dopo l’ininterrotta serie di Papi provenienti dal nostro paese: 45 Papi per una durata di 455 anni. Insomma un mezzo millennio di appannaggio esclusivo del Pontificato Romano da parte del nostro Paese.

- Che dici di quel discorso dal balcone di San Pietro che è rimasto nella storia, per la sua umanità e semplicità?
È a motivo di quei timori per la novità dell’elezione che parla subito alla folla, invece di limitarsi a benedirla: “E così mi presento a voi tutti”, dice. Ed è a quel timore che accenna con una frase che immediatamente risulta enigmatica: “Io ho avuto paura a ricevere questa nomina”. Al timore subentrerà lo stupore per l’ottima accoglienza dei romani. Ecco come ne parla in una conversazione con André Frossard, che è del 1983: «Si è preteso, non senza ragione, che il Papa, in quanto vescovo di Roma, dovesse appartenere alla nazione dei suoi diocesani. Non voglio perdere questa occasione per esprimere la mia gratitudine ai miei diocesani romani che hanno accettato questo Papa venuto dalla Polonia come un figlio della loro stessa patria. Il carisma dell’universalità deve essere ben ancorato nell’anima di questo popolo i cui antenati cristiani già avevano accettato Pietro, il galileo, e con lui il messaggio di Cristo destinato a tutti i popoli del mondo».

La sua è una figura legata alla storia della Polonia. Si dice che volesse prendere il nome di Stanislao I, in onore del santo patrono polacco, ma che poi abbia optato per Giovanni Paolo II in nome della “tradizione romana”.
Quella prima idea sul nome polacco è stata rivelata, dopo la sua morte, dal cardinale Franciszek Macharski, arcivescovo di Cracovia, in una intervista con il giornalista di Telepace Piero Schiavazzi: “In un primo momento il Santo Padre aveva pensato di prendere il nome Stanislao: non Giovanni Paolo, ma Stanislao. Poi nelle ultime ore è venuto Giovanni Paolo II”. È un’idea polacca che fa il paio con quella di farsi seppellire nella cattedrale di Cracovia, anch’essa poi rientrata: ne accenna nel testamento, dove chiede che sulla scelta del “luogo” della sepoltura venga interpellato il “metropolita di Cracovia”. Di suo voleva essere totalmente polacco, ma poi optava per essere un “papa polacco”.

- Qual era il “segreto” dell’alchimia spirituale, oserei dire, che l’ha reso un “polacco nel mondo”, e come si è esplicato nelle sue scelte politiche, fin dal coraggioso discorso del “non abbiate paura”?
È un’alchimia che opera nel profondo, nella stessa costruzione della sua personalità, una costruzione così diversa da quella tutta ecclesiastica dei Papi italiani. Giovanni Paolo è stato un Papa straordinario, preparato – anche come uomo – da una lunga serie di esperienze inconsuete. Il lavoro manuale, la guerra, la resistenza al nazismo e al comunismo – tutti elementi polacchi – lo predisposero a parlare all’umanità del suo tempo e – si direbbe – in suo nome. La forza di quelle esperienze, tipiche dell’epoca, l’aiutarono a mantenersi libero da atteggiamenti clericali e ad avvicinare all’umanità contemporanea la figura papale. Sulla base di queste premesse, interpretò il ministero petrino essenzialmente come missione alle genti, in applicazione delle decisioni del Concilio Vaticano II e a continuazione dell’opera dei Papi di quel Concilio, dai quali “infine” prese il nome.

Una caratteristica del suo modo di operare è sempre stata la semplicità, per cui, in fondo, dentro è sempre rimasto il giovane sacerdote che faceva kayak in Masuria coi ragazzi e le ragazze che istruiva. Ricordi qualche momento della sua vita, prima e dopo quel 16 ottobre 1978, che sottolineasse questo aspetto?
Egli modifica l’immagine papale e l’avvicina all’umanità contemporanea. Egli è un Papa che nuota in piscina e va in montagna a sciare, bacia le ragazze in fronte, va in ospedale a fare la tac e a farsi operare, scrive nelle encicliche: «Secondo il mio parere» (Redemptor hominis 4). E ovviamente non vuole la sedia gestatoria. Un Papa che grida ai giovani: «Chiamatemi Karol!». Che parla per iscritto della sua elezione al Pontificato – che una volta veniva detta, nella lingua della Curia: «Elevazione al Soglio di Pietro» – come di una tappa del proprio curriculum professionale: «In occasione del mio trasferimento a Roma» (nel volume Varcare la soglia della speranza, Mondadori 1994). Che sempre per iscritto così commenta la sua brillante ripresa dalle ferite dell’attentato: “Come si vede ho un organismo piuttosto forte” e del rischio di morte che corse allora dice: “Praticamente ero ormai dall’altra parte” (in Memoria e identità, Rizzoli 2005). Potremmo concludere che Karol Wojtyła ha saputo restare se stesso ed è riuscito a non diventare mai del tutto Giovanni Paolo II.

Di lui Antonio Socci ha scritto una biografia imperniata soprattutto sulla sua vita mistica e il suo rapporto con la Vergine. In particolare, diceva che sarebbe andato subito a pregare a Medjugorje, se non fosse stato politicamente rischioso (ancora non c’era stato il crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo). Come viveva questa tensione tra desiderio intimo e necessaria prudenza?
Non credo a quella proiezione di Giovanni Paolo verso Medjugorje né a quell’impedimento politico: il Muro crolla nel 1989 e Papa Wojtyła continua a viaggiare per altri quindici anni e va due volte in Bosnia – dove si trova Medjugorje – e tre volte in Croazia. Ma è vero che quell’uomo ardimentoso che era Wojtyła dovette essere tenuto a freno dal Papa Giovanni Paolo II. La lotta per tenerlo a freno si manifesta negli eccessi che hanno caratterizzato il suo Pontificato, tutti nel segno della missione: eccesso dei viaggi, dei discorsi, delle beatificazioni e canonizzazioni, dei sinodi e dei giubilei. A ben vedere si tratta sempre di eccessi riconducibili all’ansia missionaria, che è il segno essenziale del Pontificato: i discorsi sono dettati dalla stessa intenzione di arrivare a tutti che infittisce i viaggi, i sinodi servono a mobilitare le comunità cattoliche continentali in vista della missione, i giubilei arrivano alle persone semplici che non si interessano ai sinodi e alle encicliche, le beatificazioni sono destinate a fornire modelli per l’animazione delle comunità.

Ci sono aspetti del suo Pontificato che hanno prestato il fianco alla critica sia da parte di non credenti, sia da parte di credenti in cerca di chiarezza. Il primo riguarda la vicenda di Emanuela Orlandi, in cui si ha la sensazione che, da un certo momento in poi, non abbia più fatto tutto quello che poteva per far emergere la verità…
Non credo che Giovanni Paolo si sia mai occupato personalmente di questa vicenda: si è fidato dei collaboratori. E non credo neanche che avrebbe potuto fare qualcosa oltre quello che hanno fatto i collaboratori, se avesse preso in mano la questione. Ho seguito i fatti, a suo tempo, e ho ristudiato la questione ultimamente, in occasione della esumazione di Renato De Pedis: ritengo che le autorità vaticane fino alla recente nota del padre Lombardi abbiano trascurato di dare in formazioni e spiegazioni – e questo è sicuramente un errore – ma non siano responsabili di altro. Né di aver negato collaborazione agli inquirenti italiani, né di aver omesso di fare in proprio quello che potevano fare.

- Un secondo caso che provoca polemiche è la storia di Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo, al centro di pesanti storie di pedofilia, che a lungo papa Giovanni Paolo II sostenne nel suo ruolo di promotore di quell’ordine religioso (anche qui, ammesso e non concesso che fosse informato sui suoi segreti). Personalmente sono convinto che non sia stato addentro alla verità dei fatti, perché credo nella sua santità. Ma non mi va di liquidare la questione così. Tu che ne pensi?
Qui penso che davvero vi sia stato un difetto di vigilanza e di percezione. Sempre nell’ordine dell’affidamento della questione ai collaboratori, ma su un argomento che è finito più volte sul tavolo del Papa, e dunque a lui assai meglio noto rispetto al caso della Orlandi. Quello di Giovanni Paolo è un Pontificato grande come missione ma mediocre come governo: egli faceva il missionario del mondo e lasciava il governo alla Curia. Va poi detto che la questione pedofilia diviene drammatica – nella percezione vaticana – con i processi e le condanne di preti statunitensi, nel 2001-2002, quando Giovanni Paolo non ha più le forze per affrontare questioni nuove e dunque tanto più delega a ciò i collaboratori. E si sa che i collaboratori affrontano le questioni secondo la prassi consolidata e la prassi in questo caso era sbagliata, intesa non a fare giustizia e pulizia ma a salvaguardare il buon nome delle istituzioni e degli uomini di Chiesa. Se i clamori sulla pedofilia fossero arrivati dieci anni prima, probabilmente Giovanni Paolo avrebbe avuto una reazione analoga a quella che ha avuto poi Benedetto.

- Quale eredità ci lascia, oggi?
Ha modificato l’immagine papale da capo della Chiesa a predicatore del Vangelo, e in nome del Vangelo ha chiesto perdono per le colpe storiche dei cristiani. Forse un giorno si dirà che il più grande dono di Giovanni Paolo alla sua Chiesa è stato l’esame di fine millennio, che ha portato al “mea culpa” conciliare, un fatto assolutamente privo di precedenti storici. Il riesame del caso Galileo (1991), lo studio – in appositi simposi internazionali – dell’antigiudaismo (1997) e delle inquisizioni (1998) – la pubblicazione, da parte della Commissione teologica internazionale, del documento La Chiesa e le colpe del passato (2000) rappresentano il coinvolgimento della Curia romana e della Chiesa in generale nel “mea culpa” papale, che culmina con le sette richieste di perdono formulate dal Papa in San Pietro il 12 marzo dell’anno 2000: per i peccati in generale, per quelli commessi nella persecuzione degli eretici, contro l’unità delle Chiese, nei rapporti con gli ebrei, contro la pace e i diritti dei popoli, contro la donna e l’unità del genere umano, contro i diritti fondamentali della persona. Ogni persona di buona volontà non può che ringraziarlo di quell’umiltà e di quell’audacia.

fonte: www.postpopuli.it

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