martedì 27 agosto 2013

L'uomo della speranza



La parabola dei grandi, degli uomini che hanno costruito storia, ha sempre una fase discendente. Si trionfa e si accumula gloria, poi si finisce con l’essere dimenticati. La storia di Lech Walesa rispecchia questo canovaccio.

Nel corso degli anni la guida carismatica di Solidarnosc ha visto erodersi progressivamente la popolarità immensa accumulata negli anni ’80 e nei primi anni del decennio successivo, quando fu rispettivamente alla testa della battaglia libertaria contro il regime comunista e alla presidenza della repubblica, nella prima fase della stagione democratica. Diversi i motivi.

Uno: Solidarnosc, da partito-sindacato di massa che era, con i suoi oltre dieci milioni di iscritti, ha subito la batosta della legge marziale del 1981 prima e il processo centrifugo scattato dopo la fine del regime nell’89, che ha portato ognuna delle tante anime del movimento a prendere la propria strada, non senza litigate furibonde.

Due: Walesa, da capo dello stato (1991-1995), è stato molto interventista, arrivando a esercitare un’influenza eccessiva sui governi democratici. Ai polacchi la cosa non è piaciuta. Senza contare la foga che da capo dello stato ha riposto nel combattere gli ex comunisti anche dopo la fine del regime, in un momento storico in cui, complici le radicali trasformazioni economiche, la gente avevano forse bisogno di più pane e meno alterchi.

Tre, infine: dopo l’esperienza alla presidenza Walesa ha iniziato a fare il battitore libero, inanellando una serie di dichiarazioni politicamente non corrette, contro tutto e tutti, che gli hanno fatto piovere addosso copiose critiche. Ma l’ex elettricista di Danzica, dopotutto, è fatto così. Dice quello che pensa, senza guardare troppo alle parole, senza inzuppare il discorso in filtri. Più che sul pensiero, ha sempre fatto affidamento sull’azione. Sul fare.



È da qui, da quello che Walesa ha fatto, vale a dire produrre con la nascita di Solidarnosc il primo grande terremoto politico nel campo del comunismo e aprire una crepa vistosa nel Muro, che Andrzej Wajda, maestro del cinema polacco, è voluto ripartire, ridando lustro e spessore all’epopea walesiana. Raddrizzando la parabola. Avrete capito, insomma: Lech Walesa va sul grande schermo. Wajda, a 87, ha deciso di girare una pellicola sul fondatore di Solidarnosc, riscoprendone le virtù e i meriti, senza tuttavia trascurare le debolezze dell’uomo. Verrà presentata alla mostra del cinema di Venezia, che peraltro omaggia il maestro polacco con il premio Persol, dopo il Leone d’oro alla carriera del 1998. «Sono vecchio, cos’aspetto? Fare un film su Walesa era un mio dovere», ha detto in una recente intervista alla Reuters Andrzej Wajda, la cui cifra artistica e culturale sta nell’aver impresso sulla pellicola i momenti cruciali della storia travagliata, di lotte, sconfitte e resurrezioni, della Polonia.

La sua sterminata filmografia annovera I dannati di Varsavia, sull’insurrezione del 1944; Pan Tadeusz, la versione cinematografica del grande poema nazionale dell’autore romantico Adam Mickiewicz; Katyn, sull’eccidio di oltre 20mila ufficiali polacchi da parte sovietica.

Wajda, sul mito di Solidarnosc, ha già girato un film, L’uomo di ferro. Vinse la Palma d’oro a Cannes nel 1981. Ma mentre quell’opera restituiva il respiro collettivo e nazionale del movimento, il lungometraggio su Walesa ha una dimensione più individuale. Si sofferma sul retaggio morale e politico del fondatore di Solidarnosc, redimendolo e riscattandolo. Consegnandolo con un titolo inequivocabile – Walesa, l’uomo della speranza – alla memoria collettiva della nazione. «Né io, né Walesa abbiamo bisogno di questo film. Ne ha bisogno la Polonia», ha puntualizzato il regista.



In attesa di vedere il film a Venezia e sperando che venga distribuito nelle sale italiane, qualche dettaglio sul lungometraggio. Il lavoro alterna filmati d’epoca a scene realizzate in studio, gli attori sono emergenti, Walesa ha accettato di buon grado che Wajda raccontasse le sue gesta e nella pellicola c’è un passaggio sull’intervista che Oriana Fallaci fece al tempo del cosiddetto “carnevale della libertà”, il biennio (1980-1981) in cui Solidarnosc fu legalizzato.

L’avrebbe dovuta interpretare Monica Bellucci, ma costava troppo. Wajda è così ripiegato su Maria Rosaria Omaggio.

In ogni caso, ecco quello che Walesa disse alla giornalista italiana: «Se fossi stato un altro mi sarei tagliato i baffi e sarei tornato in officina. Ma ho ancora molte altre cose da fare». Fare, appunto: la parola che più di ogni altra fotografa la storia di Walesa, in quegli anni in cui l’eco possente giunta dai moli dei cantieri navali di Danzica aprì una breccia nel Muro.
 
Matteo Tacconi, Europa, 26 agosto


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