La parabola dei grandi, degli uomini che hanno costruito storia, ha
sempre una fase discendente. Si trionfa e si accumula gloria, poi si
finisce con l’essere dimenticati. La storia di Lech Walesa rispecchia
questo canovaccio.
Nel corso degli anni la guida carismatica di Solidarnosc ha visto
erodersi progressivamente la popolarità immensa accumulata negli anni
’80 e nei primi anni del decennio successivo, quando fu rispettivamente
alla testa della battaglia libertaria contro il regime comunista e alla
presidenza della repubblica, nella prima fase della stagione
democratica. Diversi i motivi.
Uno: Solidarnosc, da partito-sindacato di massa che era, con i suoi
oltre dieci milioni di iscritti, ha subito la batosta della legge
marziale del 1981 prima e il processo centrifugo scattato dopo la fine
del regime nell’89, che ha portato ognuna delle tante anime del
movimento a prendere la propria strada, non senza litigate furibonde.
Due: Walesa, da capo dello stato (1991-1995), è stato molto
interventista, arrivando a esercitare un’influenza eccessiva sui governi
democratici. Ai polacchi la cosa non è piaciuta. Senza contare la foga
che da capo dello stato ha riposto nel combattere gli ex comunisti anche
dopo la fine del regime, in un momento storico in cui, complici le
radicali trasformazioni economiche, la gente avevano forse bisogno di
più pane e meno alterchi.
Tre, infine: dopo l’esperienza alla presidenza Walesa ha iniziato a
fare il battitore libero, inanellando una serie di dichiarazioni
politicamente non corrette, contro tutto e tutti, che gli hanno fatto
piovere addosso copiose critiche. Ma l’ex elettricista di Danzica,
dopotutto, è fatto così. Dice quello che pensa, senza guardare troppo
alle parole, senza inzuppare il discorso in filtri. Più che sul
pensiero, ha sempre fatto affidamento sull’azione. Sul fare.
È da qui, da quello che Walesa ha fatto, vale a dire produrre con la
nascita di Solidarnosc il primo grande terremoto politico nel campo del
comunismo e aprire una crepa vistosa nel Muro, che Andrzej Wajda,
maestro del cinema polacco, è voluto ripartire, ridando lustro e
spessore all’epopea walesiana. Raddrizzando la parabola. Avrete capito,
insomma: Lech Walesa va sul grande schermo. Wajda, a 87, ha deciso di
girare una pellicola sul fondatore di Solidarnosc, riscoprendone le
virtù e i meriti, senza tuttavia trascurare le debolezze dell’uomo.
Verrà presentata alla mostra del cinema di Venezia, che peraltro omaggia
il maestro polacco con il premio Persol, dopo il Leone d’oro alla
carriera del 1998. «Sono vecchio, cos’aspetto? Fare un film su Walesa era un mio dovere», ha detto in una recente intervista alla Reuters
Andrzej Wajda, la cui cifra artistica e culturale sta nell’aver
impresso sulla pellicola i momenti cruciali della storia travagliata, di
lotte, sconfitte e resurrezioni, della Polonia.
La sua sterminata filmografia annovera I dannati di Varsavia, sull’insurrezione del 1944; Pan Tadeusz, la versione cinematografica del grande poema nazionale dell’autore romantico Adam Mickiewicz; Katyn, sull’eccidio di oltre 20mila ufficiali polacchi da parte sovietica.
Wajda, sul mito di Solidarnosc, ha già girato un film, L’uomo di ferro.
Vinse la Palma d’oro a Cannes nel 1981. Ma mentre quell’opera
restituiva il respiro collettivo e nazionale del movimento, il
lungometraggio su Walesa ha una dimensione più individuale. Si sofferma
sul retaggio morale e politico del fondatore di Solidarnosc, redimendolo
e riscattandolo. Consegnandolo con un titolo inequivocabile – Walesa, l’uomo della speranza
– alla memoria collettiva della nazione. «Né io, né Walesa abbiamo
bisogno di questo film. Ne ha bisogno la Polonia», ha puntualizzato il
regista.
In attesa di vedere il film a Venezia e sperando che venga
distribuito nelle sale italiane, qualche dettaglio sul lungometraggio.
Il lavoro alterna filmati d’epoca a scene realizzate in studio, gli
attori sono emergenti, Walesa ha accettato di buon grado che Wajda
raccontasse le sue gesta e nella pellicola c’è un passaggio
sull’intervista che Oriana Fallaci fece al tempo del cosiddetto
“carnevale della libertà”, il biennio (1980-1981) in cui Solidarnosc fu
legalizzato.
L’avrebbe dovuta interpretare Monica Bellucci, ma costava troppo. Wajda è così ripiegato su Maria Rosaria Omaggio.
In ogni caso, ecco quello che Walesa disse alla giornalista italiana:
«Se fossi stato un altro mi sarei tagliato i baffi e sarei tornato in
officina. Ma ho ancora molte altre cose da fare». Fare, appunto:
la parola che più di ogni altra fotografa la storia di Walesa, in quegli
anni in cui l’eco possente giunta dai moli dei cantieri navali di
Danzica aprì una breccia nel Muro.
Matteo Tacconi, Europa, 26 agosto
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