Il modo in cui papa Francesco s'è fatto voce della tragedia di Siria e
il gesto che ha annunciato per sabato hanno un significato che sarebbe
riduttivo incasellare nella sequenza delle «rivoluzioni» bergogliane.
Nell'Angelus di domenica ci sono infatti due citazioni teologicamente
impegnative sia per chi le ha fatte sia per chi le ha ascoltate.
«IL GRIDO CHE SALE» - Il Papa ha supplicato di porgere l'orecchio
al «grido che sale» dalla terra: un movimento che, nella Scrittura, è
quello che porta verso Dio la voce d'Israele in Mizraim (Egitto). Non lo
si ritrova, quel riferimento all'Esodo, nelle tante condanne papali
della guerra che papa Francesco domenica poteva ricalcare. Poteva
riferirsi al «dovere di parlare» con cui Wojtyla deplorò inascoltato la
guerra nel 2003; alla formula di Pio XII del 1939 per cui «nulla è
perduto con la pace» o a quella di Benedetto XV sulla «inutile strage»
del 1917; poteva congiungere come Paolo VI all'Onu nel 1965 il «mai più
la guerra» alla teoria della guerra come conseguenza fatale del peccato.
Invece non ha omesso nulla, ma ha scelto come cifra di riferimento
quella del grido che è una citazione dell'Esodo e insieme una citazione
del messaggio con cui Giovanni XXIII nell'ottobre 1962 scongiurò la
deflagrazione atomica ai tempi della crisi di Cuba. Una scelta che dice
come Francesco non abbia in mente una rituale deplorazione, ma voglia
andare oltre.
IL DIGIUNO - E l'oltre è indicato dall'altra citazione biblica
del Vangelo di Marco che disegna il gesto annunciato per sabato 7.
Francesco ha invitato al digiuno e alla preghiera i cristiani - e i capi
delle grandi chiese dovranno prendere posizione. Ma si è rivolto allo
stesso titolo anche ai non cristiani (per gli ebrei è l'indomani di Rosh
Hashana, il Capodanno) e agli atei, invitati non in un cortile per
esclusi, ma in una piazza che vuol essere icona dell'unità della
famiglia umana in una lotta escatologica contro la guerra. «Col digiuno e
la preghiera», secondo il Vangelo di Marco, non si placa Dio, ma si
caccia quel demonio resistente perfino all'insorgenza messianica e alla
santità dell'Inerme. Proponendo così una sorta di esorcismo del disumano
che passa dalla «lectio divina», Francesco riporta alla mente la
predicazione di Gregorio Magno davanti all'assedio dei Longobardi del
593-594. Mentre incombe la catastrofe Gregorio apre la Scrittura col
popolo e vi legge ciò che prima non appariva, perché «le parole divine
crescono con chi le legge».
Cimentarsi in questa lettura è un atto coraggioso. Il mondo di oggi gradisce messaggi brevi, al limite del vuoto ben confezionato che ad esempio la politica italiana conosce.
VISIONE GLOBALE - Francesco dovrà dimostrare di avere una lettura
piena e globale di una serie di crisi che la diplomazia vede come
episodi separati e che le comunità cristiane, alla luce della loro
minorità, sanno invece essere l'una il destino dell'altra. Quello che
dal 1989 insanguina l'ex Impero ottomano, e le sue vicinanze, è un unico
grande sisma (dello stesso tipo di quello che avrebbe spappolato
l'Europa senza l'ecumenismo e senza l'euro). Un sisma moltiplicato dalla
riapertura di cicatrici confessionali interne all'Islam che per
rimarginarsi richiederanno pochi secoli e che intanto formeranno intere
generazioni alla efferatezza. Le comunità cristiane ortodosse,
cattoliche, protestanti sanno grazie alla loro disseminata irrilevanza
quantitativa che senza iniziative serie e audaci (di cui non si vede
traccia e che eccedono l'Onu) la Libia diventerà come la Siria, la Siria
come l'Iraq, l'Iraq come l'Afghanistan e via di questo passo, in una
somma di violenza di cui, alla fine, come sempre, si rischia che paghi
il conto Israele anche se dovesse pagare il conto da vincitore. Trovare
il filo politico di questa lettura globale non è il mestiere del Papa:
ma se il Papa trova il filo spirituale può darsi che qualcuno si accorga
che quello che lega le terre dei figli di Abramo è un filo unico. Unico
e insanguinato.
Alberto Melloni, Corriere della sera, 3 settembre 2013
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