Ci
si può convertire al cristianesimo grazie alla figura di Giovanni
Paolo II restando «progressisti» nella propria visione sulla vita?
Sembrerebbe un cocktail davvero strano quello che ha animato la vita di
François Taillandier, scrittore francese e giornalista. Il quale ha
davvero vissuto il suo ritorno alla fede grazie a papa Wojtyla, alla sua
parola esigente rispetto alla mentalità comune, alla sua denuncia verso
un capitalismo liberale spietato con i poveri.
Quale è la sua provenienza religiosa?
«Sono stato battezzato dalla mia famiglia e ho fatto la prima
comunione. Fin da piccolo ho osservato un cattolicesimo famigliare: come
si andava a scuola, si andava anche a messa. Con l’adolescenza, come
tanti della mia generazione, ho completamente perso qualsiasi contatto
con la Chiesa. Questo è durato per lungo tempo. In seguito, a poco a
poco, la figura e l’azione di Giovanni Paolo II hanno cambiato
l’immagine che mi ero fatto del cattolicesimo. Wojtyla rivestiva un
ruolo politico internazionale di primo piano, ma al contempo con il suo
messaggio di Cristo avanzava un atteggiamento critico con il mondo di
allora. Questo è stato il primo shock: da giovane pensavo che il
cristianesimo rappresentasse l’ideologia prestabilita, in seguito ho
compreso che tale non era, bensì era un’esigenza di verità rispetto al
mondo».
In quale momento è avvenuto il suo ritorno alla fede?
«Intorno all’anno 2000. Continuavo la mia vita di scrittore, mi
occupavo dei miei figli e... non cercavo di convertirmi! Alcuni
giornalisti amici mi hanno chiesto di scrivere qualcosa su Giovanni
Paolo II. Ho risposto: 'Ma non sono credente!'. E loro: 'Scrivi lo
stesso!'. Inoltre, un altro momento mi ha quasi costretto a fare 'fare
outing ': in occasione di un reportage in Terra Santa avevo un autista e
un fotografo a mia disposizione. Appena partiti, mi hanno chiesto la
mia appartenenza religiosa. Loro si sono presentati come un musulmano,
l’altro ebreo, per quanto 'laicizzato'. Mi sono sorpreso nel dire: 'Sono
cattolico!'. Non l’avevo mai affermato. Avevo sempre avuto un grande
attaccamento al cattolicesimo 'culturale', all’importanza della Chiesa,
all’arte cristiana. Anche da non credente ero convinto che senza il
cristianesimo la letteratura europea semplicemente non esisterebbe. Ho
sempre avuto attenzione al fatto che la Chiesa ci aiuta a essere
società. In Francia, negli ultimi anni, si parla molto del 'legame
sociale', dimensione a metà strada tra individualismo e comunitarismo.
La Chiesa, facendoci andare a messa, chiedendoci di essere una comunità,
convocandoci, ci lega molto gli uni agli altri: ho sempre considerato
ciò una ricchezza. E mi sono reso conto che il messaggio di Giovanni
Paolo II trasmetteva proprio questo legame, che alla nostra società
manca così drammaticamente».
Può spiegare meglio questa centralità di Wojtyla nel suo ritornare cattolico?
«Paradossalmente le critiche continue dell’establishment culturale
verso la Chiesa e il papa polacco mi hanno riavvicinato alla fede.
Quando sentivo parlare di posizioni reazionarie nella Chiesa cercavo di
capire meglio e in realtà trovavo che la posizione cattolica era un
segno di contraddizione nella società. Per me tale critica ha costituito
un segnale che mi ha segnato la via. E davvero, quando nel Duemila, mi
è stato chiesto di scrivere qualcosa su Giovanni Paolo II, in quel
frangente, dentro di me, è successo qualcosa al punto che ho
ammesso: 'Sì, Cristo è risuscitato, le quattro versioni dei Vangeli
sullo stesso fatto sono vere, perché non c’era altra ragione di
scriverne così in maniera differenziata se non fosse che parlavano di un
fatto vero'. Nessuna ipotesi della nostra fantasia poteva concepire una
storia come la resurrezione».
È curioso che un pontefice considerato dai media un
«conservatore» come Wojtyla abbia aiutato a riscoprire la fede un
«progressista» come lei...
«La mia frequentazione di Giovanni Paolo II inizia da lontano: mi
ricordo molto bene il giorno in cui venne eletto papa. Come tutti
rimasi molto sorpreso che fosse stato scelto un cardinale dal mondo
comunista. Poi ci fu lo strano episodio del tentativo di ucciderlo
nell’attentato del 1981. Da lì mi sono interessato alla sua storia
passata: ho scoperto un combattente, un uomo che, nato in Polonia, aveva
lottato contro il nazismo come resistente, e si era opposto all’altro
totalitarismo, il comunismo. Negli anni Ottanta ha avuto un ruolo
fondamentale nella caduta dei regimi dell’Est. Wojtyla è stato una
personalità estremamente imprevista e imprevedibile. Solitamente per me,
come per tanti italiani, il papa era semplicemente un cardinale
italiano che non usciva dal Vaticano. Ma Giovanni Paolo II ha sconvolto
l’immagine statica del papato: ogni volta che si recava in posto faceva
sorgere come dal niente migliaia di persone. Grazie alla sua personalità
e testimonianza ho capito che il cristianesimo era una cosa vivente per
milioni e milioni di persone, soprattutto per tanti poveri. Questa è
stata per me una grande scoperta. Ad esempio, quando – lui, che veniva
da un regime comunista – è andato nella Cuba di Fidel Castro e si è
comportato come un padre con i propri figli: un fatto che mi colpì
moltissimo. Anche la scelta di non rinunciare alla sua missione durante
la malattia fu per me molto eloquente. Chiunque, anche se non credeva,
doveva ammettere che Wojtyla era un uomo che viveva per Cristo ed era di
Cristo».
Il suo approdo al cristianesimo non ha significato per lei
una svolta conservatrice. Spesso il ritorno alla fede comporta il
cambiamento di posizioni culturali in maniera tranchant.
«Sono cresciuto in un’epoca in cui il comunismo era ancora sinonimo
di cambiamento. Ho avuto sempre simpatie comuniste. Poi ho assistito
all’epoca in cui il comunismo nell’Europa dell’Est è pian piano andato
svanendo. E questo fatto ha causato la disillusione generale di ogni
speranza rivoluzionaria: il capitalismo liberale globale ha trionfato
ovunque. Non esisteva scelta: il consumo e la produzione sono
diventati il clou della vita di chiunque a qualunque latitudine.
Anche nelle nostre democrazie i diritti umani soggiacciono a questa
dinamica. In realtà si tratta anche in questo caso di un’ideologia
illusoria: come sotto il comunismo, anche con il capitalismo globale
il mondo resta violento, l’ineguaglianza tra gli uomini che
possiedono e quelli che non hanno nulla rimane molto forte. Viviamo
in società impregnate di violenza. Per questo mi pare oggi che in
questo vuoto il messaggio di Cristo possa risuonare in maniera inedita.
Già Giovanni Paolo II aveva messo in guardia, lui che il comunismo lo
conosceva bene, dal fatto che il capitalismo liberale globale non fosse
la risposta completa e definitiva ai bisogni dell’uomo. Ad esempio, la
forte critica di Wojtyla alla mentalità che va per la maggiore in
materia di questioni sessuali, rappresenta ai miei occhi una criticità
contestataria che mi ha sempre affascinato».
La tradizione cristiana ha ancora qualcosa da dire
all’Europa oppure la laicizzazione del Vecchio Continente significa
necessariamente il ripudio del cristianesimo?
«Il cristianesimo è oggi quanto mai eloquente per un Occidente
capitalista che sta vivendo all’insegna dell’unico desiderio di
consumare beni, oggetti e persone. Viviamo in una società in cui gli
antichi ideali di giustizia sono spariti. Invece il messaggio di Cristo è
alternativo all’idea che possiamo diventare felici solo consumando beni
e persone. Cristo ci insegna che esiste la speranza di qualcos’altro,
che vi è un’altra promessa: quella della salvezza dell’anima. Noi siamo
chiamati ad essere qualcosa di più di semplici macchine che consumano
beni e persone. Se ci guardiamo intorno, dove troviamo una voce più
forte nella presa di distanza dal mondo attuale, dalla mentalità
corrente, dall’opinione dominante come la parola del cristianesimo? Dove
troviamo un appello più radicale alla giustizia, al corretto uso dei
beni terreni? Cristo continua ad interpellarci. Sono convinto che la
testimonianza cristiana possa essere molto benefica per l’uomo e per
l’intera società. Il cristianesimo ha molto da dire e da proporre oggi».
Lorenzo Fazzini, Avvenire, 11 agosto 2013
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