Mauro Corona, allora, aveva 13 anni. Fu sfollato con il resto della popolazione. Tornò in quei luoghi tempo dopo, già uomo. Riabbracciò quelle case in pietra e le sue montagne, che scolpì, curò, raccontò (celebre il romanzo L’ombra del bastone, Mondadori). Di quella sera ricorda il rumore, l’enorme boato, il silenzio che ne seguì, le preghiere della nonna e «il buio della valle». Corona risponde al telefono che sta arrampicandosi proprio su quelle rocce: «Sono ancora basso, mi fermo e parliamo». Ma non è un’intervista facile. Alcune ferite non si sono cicatrizzate. «Adesso si svegliano anche le galline, per i cinquant'anni ... perché no i 49? Siete banali. Mai un guizzo. Per questo il Paese va in malora perché non riuscite ad anticipare. Scrivi ‘ste robe!».
Ancora c’è rabbia...
«Ma come si fa a non averne? Dov’è Napolitano? Lo volevamo qui.
Hanno ammazzato duemila persone. Non si è mai presentato nessuno al
paese di Erto. Siamo sempre stati noi ad andare da loro. I nostri
sindaci, anche quelli della valle, invece di alzare la voce e pretendere
che il Capo dello Stato venisse qui hanno abbassato la testa e sono
andati loro. Sono andati a Canossa. Servi della gleba!».
Vi sentite abbandonati?
«Qui non c’è mai stato un papa, un presidente, né vescovi, né
principi, Erto sta crollando pezzo su pezzo. È protetto dall’Unesco,
dalle Belle Arti.... Tutte patacche! Perché Napolitano va a rendere
omaggio, doveroso, ai morti del terremoto e non viene a Erto? Perché non
viene il Papa a dire una messa su questa chiesa che ha mille anni di
storia?
E basterebbe?
«Ci basta così. Una carezza sulla pelle bagnata di questi cari
abbandonati. Una carezza, dopo 50 anni. No, bisogna che andiamo noi a
Roma, che andiamo laggiù. Il paese non sono le case, un paese è la
gente. Le case sono solo delle mummie. Se non c’è un palato che non
gusta la mela, questa non esiste. Quello che fa il paese di Erto sono le
persone non le case. Persone che sono state abbandonate volutamente».
Però anche questa è un’occasione per parlarne...
«Non mi interessa il “festival del Vajont”, dove tutti scoprono
i morti a cifra tonda. A Erto non ci sono servizi. I nostri figli, non i
miei che sono anziani, fanno una tortura per andare scuola. Devono
prendere una corriera per andare a Longarone e poi un treno per andare a
Belluno. E poi tornare facendo il percorso inverso. Questo è il Vajont!
Qui non c’è un tabacchino, un macellaio, un frutta e verdura. Questo è
il Vajont! Dove si taglia la posta che arriva ogni tre giorni. Dove i
giornali che leggo, compreso il suo, arrivano il giorno dopo. Ma siamo
gente anche noi o no? Altrimenti ci chiudano in una riserva e ci mandino
da mangiare da bere e noi staremo buoni, così come abbiamo fatto da 50
anni».
Nel corso degli anni sul Vajont si è detto di tutto. Per molti commentatori, però, rimane una catastrofe «naturale»...
«Anche per lo Stato, sa. Hanno concesso la giornata della
memoria dicendo che la catastrofe è successa per incuria umana.
Vigliacchi! E non la vogliono togliere quella frase. Anche gente come
Giorgio Bocca diceva che fu una catastrofe naturale. Lo scrittore Dino
Buzzati affermava che era “un sasso caduto nel bicchiere”. No signor
Buzzati, un sasso ce lo hanno buttato nel bicchiere. Lo vogliamo dire o
no?».
Be’ qualcuno lo ha detto...
«Forse, ma se non c’era Marco Paolini noi eravamo fermi al
1963. Perché la tv di Stato mi fa sapere che Belen Rodriguez aspetta un
bambino o che la regina si sposa ma non parla di Erto, della nostra
tragedia? Solo adesso, che è l’anniversario a cifra tonda lo scoprono.
Mi fanno vergognare, sa. Non di essere italiano ma di stare al mondo. E
ora basta, la saluto. Questa è la mia intervista per l’Unità, se la volete». La montagna non aspetta.
fonte: l'Unità, 9 ottobre 2013
Adagiata sul greto del Piave, a cento chilometri di
distanza da Longarone. A Fossalta di Piave, il 10 ottobre 1963 avevano
trovato una Madonna con le mani strappate dall’acqua dell’onda del
Vajont che alle 22.39 della sera prima, il 9, aveva spazzato via la
chiesa assieme a sette paesi e provocato 1910 morti. Davanti a quella
Madonna deturpata, il presidente del Senato Pietro Grasso si è fermato a
lungo. «È il simbolo - ha detto - che in sé conserva l’idea e
l’immagine del dolore».
La statua è il segno, come altri nella memoria popolare, di
una tragedia, di «un mondo che scompare in una notte», non solo per
colpa della natura. Quella del Vajont è una «ferita ancora aperta» che a
gran voce chiama in causa l’uomo e suonano chiare le parole del
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: «quell’evento non fu una
tragica, inevitabile fatalità, ma drammatica conseguenza di precise
colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le
responsabilità».
Non ci sono ombre nelle parole di Grasso che, da Longarone,
nel giorno delle celebrazioni e del ricordo dei 50 anni dal disastro,
punta il dito non verso il vicino monte Toc, da dove si stacco’ la frana
che piombò sul bacino artificiale della diga e sollevò l’onda
`assassina´, ma verso gli interessi governati dall’uomo. «Questo
disastro - dice - si sarebbe evitato se una maggiore considerazione
della vita umana avesse prevalso su interessi economici e strategici.
Non si possono sottacere le pesanti responsabilità umane che hanno
determinato la catastrofe».
Sono le parole di uno Stato che chiede scusa. «Sono qui oggi
- ricorda Grasso - per inchinarmi di fronte alle vittime e ai
sopravvissuti. Sono qui per portare le scuse dello Stato. Sono qui per
riparare, per sanare, per quanto possibile, quella ferita che da 50 anni
separa questo popolo delle istituzioni, convinto che solo con la verità
e la giustizia questo processo potrà trovare pieno compimento». Il
presidente del Senato chiede un cambio di prospettiva nella tutela
dell’ambiente, spazzando via l’idea che sia un costo aggiuntivo, «un
intralcio alla produzione e alla crescita». Dalla terra martoriata di
Puglia, che conta i suoi morti per il maltempo, arriva intanto il grido
del presidente dell’Ordine dei geologi pugliesi, Salvatore Valletta: a
«giudicare dallo stato del territorio italiano» la tragedia del Vajont
«non è servita».
«Tragica fatalità» con oggi, però, è una dizione che
scompare una volta per tutte dalla storia del Vajont. Di «tragedia
annunciata» parla il governatore veneto Luca Zaia. Ricorda l’appello
inascoltato di Tina Merlin - sulla cui figura e sulle cui parole si è
soffermato anche Grasso - e dice: «I vecchi del posto sapevano che la
montagna sarebbe venuta giù». Per il presidente del Friuli Venezia
Giulia Deborah Serracchini il cordoglio non basta «se non si ricorda che
quella tragedia non fu un evento naturale, non fu una fatalità, ma un
disastro provocato da precise colpe e responsabilità umane».
Intanto, nel giorno che l’Italia ha eletto - come ha
ricordato Napolitano - a “Giornata in memoria dei disastri ambientali e
industriali causati dall’incuria dell’uomo”, le comunità della Valle del
Piave - Longarone, Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Faè, Codissago,
Castellavazzo - e di Erto e Casso, in terra friulana a monte della diga,
sono tornata a piangere ancora una volta i quasi 2.000 morti di 50 anni
fa. Lacrime che hanno la forza di non dimenticare gli altri drammi e il
sindaco Roberto Padrin invita tutti a un minuto di silenzio per le
vittime del naufragio a Lampedusa. Il vescovo di Concordia-Pordenone,
Giuseppe Pellegrini, nel corso della messa concelebrata nel cimitero
monumentale, tuona sulla frana «antropologica e sociale» che oggi si
abbatte sull’umanità. Alle 22.39, ora del disastro, il semplice suono di
una campana avvolge il silenzio di una comunità e riassume più di ogni
altra cosa il senso di un dolore che non sa trovare pace.
fonte: La Stampa, 9 ottobre 2013
«Una faccenda personale». Per Dino Buzzati, bellunese, la tragedia del Vajont fu prima di tutto questo: una drammatica storia «dei suoi paesi, della sua gente». All'indomani del disastro, lo scrittore la raccontò in un articolo uscito sul «Corriere della Sera» l'11 ottobre del 1963. In questa pagina lo ripubblichiamo integralmente in occasione del cinquantesimo anniversario del Vajont.
Stavolta per il giornalista che commenta non c'è compito da risolvere, se si può, con il mestiere, con la fantasia e col cuore. Stavolta per me, è una faccenda personale. Perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente. E scriverne è difficile. Un po' come se a uno muore un fratello e gli dicono che a farne il necrologio deve essere proprio lui.
Conosco quei posti così bene, ci sono passato tante centinaia e forse migliaia di volte che da lontano posso immaginare tutto quanto come se fossi stato presente. Per gli uomini che non sanno, per i paesi antichi e nuovi sulla riva del Piave, là dove il Cadore dopo tante convulsioni di valloni e di picchi apre finalmente la bocca sulla pianura e le montagne per l'ultima volta si rinserrano le une alle altre, è soltanto una bellissima sera d'ottobre. In questa stagione l'aria è lassù limpida e pura e i tramonti hanno delle luci meravigliose.
Ecco, il sole è scomparso dietro le scoscese propaggini dello Schiara, rapidamente calano le ombre, giù dalle invisibili Dolomiti comincia a soffiare un vento freddo, qua e là si accendono i lumi, i buoi si assopiscono nelle stalle, gruppetti di operai dalla fabbrica di faesite pedalano canterellando verso casa, un'eco di juke box con la rabbiosa vocetta di Rita Pavone esce dal bar trattoria con annessa colonnetta di benzina, rare macchine di turisti passano sulla strada di Alemagna, la stagione delle vacanze è finita.
Proprio di fronte a Longarone la valle del Vajont è già buia, più che una valle è un profondo e sconnesso taglio nelle rupi, un selvaggio burrone, mi ricordo la straordinaria impressione che mi fece quando lo vidi per la prima volta da bambino. A un certo punto la strada attraversava l'abisso, da una parte e dall'altra spaventose pareti a picco. Qualcuno mi disse che era il più alto ponte d'Italia, con un vuoto, sotto, di oltre cento metri. Ci fermammo e guardai in giù col batticuore.
Bene, proprio a ridosso del vecchio e romantico ponticello era venuta su la diga e lo aveva umiliato. Quei cento metri di abisso erano stati sbarrati da un muro di cemento, non solo: il fantastico muraglione aveva continuato ad innalzarsi per altri centocinquanta metri sopra il ponticello e adesso giganteggiava più vertiginoso delle rupi intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita misteriosa.
Notte. Due finestre accese nella cabina comandi centralizzati, nell'acqua del lago artificiale si specchia una gelida falcetta di luna, ronzii nei fili, giù nel tenebroso botro lo scroscio dello scarico di fondo, a Longarone, Faè, Rivalta, Villanova dormono, ma c'è ancora qualcuno che contempla il video, qualcuno nell'osteria intento all'ultimo scopone. In quanto alle montagne, esse se ne stanno immobili, nere e silenziose come il solito.
No, a questo punto l'immaginazione non è più capace di proseguire, la valle, i monti, i paesi, le case, gli uomini, tutto riesco ad immaginare nella notte tranquilla poiché li conosco cosi bene, ma adesso non bastano la consuetudine e i ricordi. Come ricostruire con la mente ciò che è accaduto, la frana, lo schiantamento delle rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E l'onda spaventosa, da cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come un immenso dorso di balena, ha scavalcato il bordo della diga, è precipitata a picco giù nel burrone avventandosi, terrificante bolide di schiume, verso i paesi addormentati?
E il tonfo nel lago, il tremito della terra, lo scroscio nell'abisso, il ruggito folle dell'acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, coro di boati, stridori, rimbombi, cigolii, scrosci, urla, gemiti, rantoli, invocazioni, pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando l'irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c'è nelle tombe?
Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l'ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d'arte, testimoniava della tenacia, del talento e del coraggio umani.
La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico. Mi ricordo che, mentre la facevano, l'ingegnere Gildo Sperti della Sade mi portò alla vicina centrale di Soverzene dove c'era un grande modello in ottone dello sbarramento in costruzione. Ed era una scultura stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi.
Intatto, di fronte ai morti del Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza, della ingegneria, della tecnica, del lavoro. Ma esso non è bastato. Tutto era stato calcolato alla perfezione, e quindi realizzato da maestri, la montagna, sotto e ai lati, era stata traforata come un colabrodo per una profondità di decine e decine di metri e quindi imbottita di cemento perché non potesse poi in nessun caso fare dei brutti scherzi, apparecchiature sensibilissime registravano le più lievi irregolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma non è bastato.
Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed astuta che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà.
Intatto, e giustamente, è il prestigio dell'ideatore, dell'ingegnere, del progettista, del costruttore, del tecnico, dell'operaio, giù giù fino all'ultimo manovale che ha sgobbato per la diga del Vajont. Ma la diga, non per colpa sua è costata duemila morti. I quali morti non sono della Cina o delle Molucche, ma erano gente della mia terra che parlavano come me, avevano facce di famiglia e chissà quante volte ci siamo incontrati e ci siamo dati la mano e abbiamo chiacchierato insieme.
E il monte che si è rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e vi rimarrà per sempre. Ragione per cui chi scrive si trova ad avere la gola secca e le parole di circostanza non gli vengono. Le parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele.
fonte: Corriere della Sera
«Una faccenda personale». Per Dino Buzzati, bellunese, la tragedia del Vajont fu prima di tutto questo: una drammatica storia «dei suoi paesi, della sua gente». All'indomani del disastro, lo scrittore la raccontò in un articolo uscito sul «Corriere della Sera» l'11 ottobre del 1963. In questa pagina lo ripubblichiamo integralmente in occasione del cinquantesimo anniversario del Vajont.
Stavolta per il giornalista che commenta non c'è compito da risolvere, se si può, con il mestiere, con la fantasia e col cuore. Stavolta per me, è una faccenda personale. Perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente. E scriverne è difficile. Un po' come se a uno muore un fratello e gli dicono che a farne il necrologio deve essere proprio lui.
Conosco quei posti così bene, ci sono passato tante centinaia e forse migliaia di volte che da lontano posso immaginare tutto quanto come se fossi stato presente. Per gli uomini che non sanno, per i paesi antichi e nuovi sulla riva del Piave, là dove il Cadore dopo tante convulsioni di valloni e di picchi apre finalmente la bocca sulla pianura e le montagne per l'ultima volta si rinserrano le une alle altre, è soltanto una bellissima sera d'ottobre. In questa stagione l'aria è lassù limpida e pura e i tramonti hanno delle luci meravigliose.
Ecco, il sole è scomparso dietro le scoscese propaggini dello Schiara, rapidamente calano le ombre, giù dalle invisibili Dolomiti comincia a soffiare un vento freddo, qua e là si accendono i lumi, i buoi si assopiscono nelle stalle, gruppetti di operai dalla fabbrica di faesite pedalano canterellando verso casa, un'eco di juke box con la rabbiosa vocetta di Rita Pavone esce dal bar trattoria con annessa colonnetta di benzina, rare macchine di turisti passano sulla strada di Alemagna, la stagione delle vacanze è finita.
Proprio di fronte a Longarone la valle del Vajont è già buia, più che una valle è un profondo e sconnesso taglio nelle rupi, un selvaggio burrone, mi ricordo la straordinaria impressione che mi fece quando lo vidi per la prima volta da bambino. A un certo punto la strada attraversava l'abisso, da una parte e dall'altra spaventose pareti a picco. Qualcuno mi disse che era il più alto ponte d'Italia, con un vuoto, sotto, di oltre cento metri. Ci fermammo e guardai in giù col batticuore.
Bene, proprio a ridosso del vecchio e romantico ponticello era venuta su la diga e lo aveva umiliato. Quei cento metri di abisso erano stati sbarrati da un muro di cemento, non solo: il fantastico muraglione aveva continuato ad innalzarsi per altri centocinquanta metri sopra il ponticello e adesso giganteggiava più vertiginoso delle rupi intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita misteriosa.
Notte. Due finestre accese nella cabina comandi centralizzati, nell'acqua del lago artificiale si specchia una gelida falcetta di luna, ronzii nei fili, giù nel tenebroso botro lo scroscio dello scarico di fondo, a Longarone, Faè, Rivalta, Villanova dormono, ma c'è ancora qualcuno che contempla il video, qualcuno nell'osteria intento all'ultimo scopone. In quanto alle montagne, esse se ne stanno immobili, nere e silenziose come il solito.
No, a questo punto l'immaginazione non è più capace di proseguire, la valle, i monti, i paesi, le case, gli uomini, tutto riesco ad immaginare nella notte tranquilla poiché li conosco cosi bene, ma adesso non bastano la consuetudine e i ricordi. Come ricostruire con la mente ciò che è accaduto, la frana, lo schiantamento delle rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E l'onda spaventosa, da cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come un immenso dorso di balena, ha scavalcato il bordo della diga, è precipitata a picco giù nel burrone avventandosi, terrificante bolide di schiume, verso i paesi addormentati?
E il tonfo nel lago, il tremito della terra, lo scroscio nell'abisso, il ruggito folle dell'acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, coro di boati, stridori, rimbombi, cigolii, scrosci, urla, gemiti, rantoli, invocazioni, pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando l'irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c'è nelle tombe?
Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l'ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d'arte, testimoniava della tenacia, del talento e del coraggio umani.
La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico. Mi ricordo che, mentre la facevano, l'ingegnere Gildo Sperti della Sade mi portò alla vicina centrale di Soverzene dove c'era un grande modello in ottone dello sbarramento in costruzione. Ed era una scultura stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi.
Intatto, di fronte ai morti del Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza, della ingegneria, della tecnica, del lavoro. Ma esso non è bastato. Tutto era stato calcolato alla perfezione, e quindi realizzato da maestri, la montagna, sotto e ai lati, era stata traforata come un colabrodo per una profondità di decine e decine di metri e quindi imbottita di cemento perché non potesse poi in nessun caso fare dei brutti scherzi, apparecchiature sensibilissime registravano le più lievi irregolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma non è bastato.
Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed astuta che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà.
Intatto, e giustamente, è il prestigio dell'ideatore, dell'ingegnere, del progettista, del costruttore, del tecnico, dell'operaio, giù giù fino all'ultimo manovale che ha sgobbato per la diga del Vajont. Ma la diga, non per colpa sua è costata duemila morti. I quali morti non sono della Cina o delle Molucche, ma erano gente della mia terra che parlavano come me, avevano facce di famiglia e chissà quante volte ci siamo incontrati e ci siamo dati la mano e abbiamo chiacchierato insieme.
E il monte che si è rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e vi rimarrà per sempre. Ragione per cui chi scrive si trova ad avere la gola secca e le parole di circostanza non gli vengono. Le parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele.
fonte: Corriere della Sera
Nessun commento:
Posta un commento