Carlo Maria Martini (1927 - 2012) |
Nelle
valli del Cadore, dopo una stagione di pioggia, il sole asciuga le
vecchie ossa della catena dolomitica. Per anni ho adattato il mio passo a
quello nobile, ma appesantito dalla malattia, di Carlo Maria Martini.
In altri tempi, dalle pendici del Sasso Lungo il cardinale avrebbe
imbracciato i suoi bastoni telescopici e si sarebbe incamminato, lungo
sentieri poco conosciuti, verso la vetta.
Negli ultimi anni lasciava che
altri lo conducessero in luoghi da dove si potessero abbracciare dal
basso orizzonti meno angusti di quelli del Parkinson. Martini sapeva che
la vita ha le regole della montagna. In vetta le prospettive si sommano
e la fatica diventa gioia.
Da lassù, stando sulla stessa pietra, girando su se stessi di 360 gradi, si può finalmente godere di una visione d’insieme. La vita è una montagna che si può scalare da più versanti. Ciascuno parte dal campo base con esperienza zero.
Da lassù, stando sulla stessa pietra, girando su se stessi di 360 gradi, si può finalmente godere di una visione d’insieme. La vita è una montagna che si può scalare da più versanti. Ciascuno parte dal campo base con esperienza zero.
Anche Martini, da uomo e da gesuita, da
arcivescovo e da malato, è partito dal livello zero. Ma non era uno
scalatore sprovveduto, sapeva che per raggiungere la vetta servono
strumenti adeguati: la bussola del discernimento, la corda
dell’esperienza altrui, l’acqua fresca della condivisione, il cioccolato
dello stupore e il respiro della Scrittura, che dà senso al cammino
quando la cima appare lontana.
Negli ultimi anni, dover stare ai piedi
della montagna non era una rinuncia troppo gravosa per Carlo Maria
Martini. Era piuttosto il tempo della sintesi dei tanti sentieri
percorsi, degli orizzonti accarezzati alla fine di ogni scalata.
Contemplare dalle pendici era per lui, da un lato, condividere
l’impotenza dei tanti che non avrebbero potuto mai raggiungere la vetta
e, dall’altro, mettere a disposizione di tutti le mete già raggiunte e
inaccessibili agli altri.
Dopo aver dispensato il respiro della
Scrittura, ora aveva il fiato corto. Dopo aver fatto da apripista sui
sentieri più impervi, ora era su una sedia a rotelle.
Provo, due anni
dopo la sua partenza, a seguire le tracce da lui lasciate nel Cadore.
Elisa, otto anni, mi precede su un sentiero ripido. A ogni tornante si
siede e mi aspetta. Dice: «Sei una lumaca!». Non si può che assentire:
«Un discepolo non è da più del maestro né un servo da più del suo
padrone» (Mt 10,24 ).
Monte Tudaio (m. 2140) |
Ancora le generazioni si seguono attendendosi
reciprocamente. Arrivo in cima sfinito. Metto uno dei rosari benedetti
dal cardinale, quando ancora viveva a Gerusalemme, sotto una pietra
sulla sommità del monte Tudaio. Piedi e caviglie sono indolenziti, ma
capisco qualcosa in più della vita di Carlo Maria Martini e delle parole
del profeta Isaia: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di
lieti annunzi, che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la
salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio» (Is 52,7 ).
Il papà della
piccola Elisa deve rimediare al guaio di una scarpa della figlia andata
in pezzi. Mentre assisto al geniale rimedio, mi chiedo se il messaggero
di lieti annunci di pace descritto dal Profeta non fosse un bambino.
Fonte: Damiano Modena, Corriere della Sera, 31 agosto 2014
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