Agrigento: 9 maggio 1993 |
Il vero cruccio del capomafia, a
leggere i discorsi di Totò Riina registrati un anno fa nel «passeggio»
del carcere milanese di Opera, sembra essere l’impegno sociale della
Chiesa. I «preti di strada», come don Puglisi e don Ciotti, ma anche
cattolici convinti che avevano scelto altre professioni come Rosario
Livatino, il «giudice ragazzino » trucidato dai killer di Cosa nostra
nel 1990. In cima alla filiera, però, Riina mette papa Giovanni Paolo
II, che nel maggio ‘93, in piena stagione stragistico-mafiosa, tuonò
contro i boss dalla Valle dei Templi. In una conversazione intercettata
nel novembre scorso il «capo dei capi » si riferisce a Francesco,
proclamato Pontefice otto mesi prima, e dice: «Questo papa è buono…
troppo buono. Quello polacco invece era cattivo… proprio… Era un
carabiniere… Ha esortato a pentirsi… Noi siamo tutta gente educata…».
All’epoca Francesco non aveva ancora invitato i cosiddetti «uomini
d’onore» a convertirsi e «fermarsi di fronte al male»; è probabile che
dopo quelle parole Riina abbia cambiato idea. Su papa Wojtyla, invece,
aveva già espresso un’opinione chiara il 14 settembre 2013. È il giorno
in cui si lascia andare a duri giudizi su don Pino Puglisi, il parroco
del quartiere palermitano Brancaccio assassinato dai sicari dei boss
Graviano vent’anni prima, nel settembre 1993. Il detenuto pugliese
Alberto Lorusso, alla vigilia dell’anniversario dell’omicidio e della
beatificazione della vittima, quasi stimola il suo illustre compagno di
«carcere duro». E Riina non si fa pregare: «Critica il comportamento di
don Puglisi — riassumono gli intercettatori della Direzione
investigativa antimafia —, sottolineando che questi non faceva il prete
come tutti gli altri ma voleva fare il “mafioso”, interessandosi di
vicende che andavano oltre il suo compito ». Successivamente interviene
Lorusso, il quale «inizia a muovere la stessa severa critica nei
confronti del processo di beatificazione del giudice Livatino. Quindi
passano, in special modo Lorusso, a criticare la famosa omelia avvenuta
ad Agrigento in cui papa Giovanni Paolo II ebbe a scagliarsi contro la
mafia, ed esprimono il loro disappunto sull’operato del Pontefice che, a
loro avviso, avrebbe dovuto prendersela con la classe politica, vera
responsabile di tutto».
Nella stessa conversazione è sempre Lorusso a
sbeffeggiare la figura di don Puglisi — «voleva fare il governatore… ci
voleva fare il pubblico ministero… » — e poi chiama in causa don Luigi
Ciotti, il fondatore di Libera: «C’è quest’altro signore, altro parrino
(prete, ndr)… questo Ciotti… Ciotti come si chiama». Riina conferma:
«Ciotti, Ciotti… quello che mi doveva venire a parlare…». Gli agenti
all’ascolto riferiscono: «Lorusso dice che don Ciotti si fa dare i soldi
dallo Stato e amministra i beni che sono stati sequestrati», e a questo
punto interviene di nuovo Riina: «Putissimu pure ammazzarlo… Si fa dare
i soldi…». E Lorusso: «Ci fa tanta industria… ci specula a non finire
questo signore… Gli danno pure la scorta. Un parrino che si interessa
delle anime con la scorta…». L’insofferenza verso il prete antimafia
emerge dal modo in cui Riina ricostruisce il colloquio mai avvenuto col
fondatore di Libera. A differenza di quanto si venne a sapere nel 1998,
cioè che la moglie del boss chiese a don Ciotti di andare in carcere dal
marito il quale aveva espresso questa volontà, il capomafia confida al
suo compagno di detenzione e alle microspie della Dia che la richiesta
partì dal sacerdote. «Riina si rese disponibile — si legge nel riassunto
dell’intercettazione —, e motivò questa decisione col desiderio di
voler dire in faccia a don Ciotti che doveva fare il commissario (di
polizia, ndr) anziché il parrino. Riina precisa che don Ciotti si è
dimostrato malvagio e cattivo perché, dopo aver ottenuto la
disponibilità del Riina per il tramite della moglie, non è più andato a
incontrarlo». Il capo di Cosa nostra prosegue lanciando insulti contro
il sacerdote, e Lorusso si mostra d’accordo; quasi interpretando con
consapevolezza il suo ruolo di «spalla» negli sfoghi e nelle
ricostruzioni a proprio uso e consumo di Totò Riina, intercettate un
anno fa nel penitenziario in cui era rinchiuso. Tutti questi dialoghi
sono ora depositati agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia,
che riprenderà tra qualche settimana col duello tra accusa e difese
sulla testimonianza (richiesta dai pubblici ministeri) del Capo dello
Stato. Per i magistrati le affermazioni di Riina sono «genuine», nel
senso che secondo loro, fino a novembre 2013 quando ci furono le prime
rivelazioni sulle minacce al pm Di Matteo, il boss corleonese non sapeva
di essere intercettato durante l’ora d’aria. Restano tuttavia molti
interrogativi sul significato e le motivazioni delle «esternazioni» del
capomafia — spesso contorte, smozzicate e diluite nel tempo — che in
quattro mesi di registrazioni hanno spaziato tra gli argomenti più
disparati. Fino alle vanterie sugli investimenti in denaro rimasti
nascosti, rivelate dal sito internet LiveSicilia, insieme all’ammissione
dell’omicidio Scaglione, il procuratore di Palermo ucciso nel 1971,
primo attacco delle cosche alle istituzioni. «Gli ha sparato Binnu»,
cioè Bernardo Provenzano, annuncia Riina il 31 agosto 2013. E in un
colloquio del settembre 2013, dispensa altre valutazioni sull’altro
padrino corleonese, tirandolo in ballo a proposito del giornalista Beppe
Alfano, assassinato in provincia di Messina l’8 gennaio ‘93: «Arrivò ‘u
scimunito di Binnu Provenzano… questo è veramente scimunito ad
apparenza mia… Non ora che è malato, ma era scimunito quando era
buono…».
fonte: Corriere della Sera, 1 settembre 2014
per approfondimenti:
http://www.sciclubwojtyla.blogspot.it/2011/04/contro-la-mafia.html
Nessun commento:
Posta un commento