sabato 27 febbraio 2016

Nanga Parbat: la montagna "mangiauomini"

Era il suo sogno proibito il Nanga Parbat. L'alpinista bergamasco Simone Moro, che ha salito in prima invernale tre ottomila (il Makalu, il Gasherbrum II e il Shisha Pangma), ci aveva già provato. Respinto per due volte dalla montagna "mangiauomini" che non si era ancora fatta scalare in mezzo al suo manto innevato. Simone veniva spazzato via dal vento a centinaia di metri dalla vetta. Un meteo implacabile, soprattutto a quelle altitudini tra gennaio e marzo, lo ha fatto rinunciare nel 2012 e nel 2014. Il 26 febbraio 2016 alle 15,37 locali (le 11,37 in Italia) arriva su Facebook l'annuncio che fa entrare Moro nella storia dell'alpinismo: è il primo al mondo a violare in invernale la "killer mountain" (montagna assassina), quella che si è portata via anche il fratello di Reinhold Messner, Gunther, nella discussa spedizione tedesca del 1970. 

L''impresa. Simone era partito il 6 dicembre per Islamabad, Pakistan. Ha raggiunto la vetta, dopo due mesi e venti giorni, insieme a Alex Txicon e Ali Sadpara: 8126 metri di altitudine scalati grazie a un tempo perfetto: sole, assenza di vento e temperature più alte della media. Condizioni meteo eccezionali che hanno aiutato i tre nell'impresa mai riuscita prima. Sono scesi e hanno raggiunto in sicurezza il campo 4 nel pomeriggio, il più alto, dove trascorreranno la notte. Si trova a circa 7.200 metri, poco sotto quella che viene chiamata la "zona della morte" (sopra gli ottomila metri): fu Messner, il "re degli ottomila", a chiamarla così per la prima volta: è quella dove l'ossigeno viene a tal punto a rarefarsi da provocare cambiamenti significativi nel corpo umano. Il sangue si fa più denso, la respirazione difficoltosa, si distruggono dei neuroni, ogni piccolo movimento diventa faticosissimo, come se i piedi fossero incollati alla montagna e le gambe pesassero dieci volte.


Moro, altoatesino d'adozione grazie al rapporto sentimentale con Barbara Zwerger, ha scalato insieme ai due compagni di cordata: lo spagnolo Alex Txicon e il pakistano Ali Sadpara, che hanno percorso la via Kinshofer lungo la parete del Diamir. È, questa, una novità che non è sfuggita agli esperti di montagna: in genere, sia gli sherpa nepalesi che i 'portatori' pakistani accompagnano gli alpinisti che poi danno la scalata alla vetta. Il fatto che questa volta ci sia stato un pakistano è un segnale di cambiamento della cultura locale, forse l'apertura di una nuova era fatta non più di sherpa e portatori, ma di vere e proprie 'guide alpine' del posto. L'altoatesina Tamara Lunger, compagna di spedizione di Moro, si è fermata invece sotto la vetta. La scalata è stata fatta in uno stile che non è né del tutto himalayano (con la presenza di portatori, l'allestimento di campi a diverse altezze per acclimatarasi, le corde fisse sulla montagna e l'utilizzo di bombole d'ossigeno) né del tutto alpino (usato da Messner, che fu l'unico a scalare tutti i 14 ottomila senza ossigeno). I quattro ragazzi infatti non avevano ossigeno né portatori, ma hanno utilizzato corde fisse e hanno allestito i vari campi. 


La rinuncia. Non si sa cosa sia accaduto, prima dell'attacco della vetta, invece, all'altro alpinista italiano che faceva parte della spedizione: Daniele Nardi. "Non ho alcun rammarico. Il mio modo di scalare si basa su un'etica solida, su valori, la vetta viene dopo", ha detto lo scalatore laziale che ha lasciato il campo base per insanabili divergenze con i compagni di cordata. "La vetta la sento anche un po' mia - ha aggiunto - anche perché ho attrezzato la via fino a 6.700 metri, ho portato le corde, la mia tenda è ancora lassù. I diverbi con Txicon? La questione sarà risolta in sede legale". Anche per lui scalare il Nanga Parbat in invernale è sempre stato un grande sogno. Che ritorna nel cassetto, per quest'anno.  


La "mangiauomini". Il Nanga Parbat è la nona vetta più alta del mondo. Il suo nome significa "montagna nuda" in lingua Urdu, ma gli sherpa, gli abitanti della regione himalayana, la chiamano "la mangiauomini" o la "montagna del diavolo", per la sua storia drammatica e la percentuale di mortalità (altissima, intorno al 30%, supera anche il K2 ed è seconda solo all'Annapurna, altre due ottomila con enormi difficoltà tecniche). Prima di essere conquistata nel 1953 dall'austriaco Hermann Buhl, otto spedizioni l'avevano tentata provocando 31 morti, molti dei quali tedeschi. E dduecento persone circa che l'hanno scalata, quasi sessanta non sono mai tornate. Tra le più celebri la morte di Albert Frederick Mummery che ha perso la vita sulla parete Rakhiot. Buhl attaccò la vetta contro il volere del capo spedizione Herligkoffer e dovette dormire in piedi, sulla cima, perché il terreno non gli permetteva né di sdraiarsi né di ripararsi. Inoltre l'abbigliamento dell'epoca non era propriamente "anti-gelo". Buhl salì dal versante più difficile, quello a nord, meno soleggiato, il Rakhiot. Aprì una via, alla quale si aggiunse quella di Karl Unterkircher, Walter Nones e Simon Kehrer. Messner aprì invece in solitaria una via sul versante del Diamir, a ovest, dove c'è la "via normale", la Kinshofer, aperta nel 1962, quella più sicura.  


Fratelli. Reinhold Messner e suo fratello Gunther furono i primi a conquistare la cima dalla parete est, la Rupal, nel 1970. Salirono in stile alpino, senza ossigeno e senza portatori. I due, a causa della stanchezza di Günther, meno esperto, durante la salita, dopo aver raggiunto la vetta decisero di scendere dalla più agevole parete ovest del Diamir. Bivaccarono più giorni all'aperto e quando erano quasi arrivati alle pendici della montagna, Günther fu travolto da una valanga e morì. Reinhold rimase sei giorni sulla montagna in cerca del fratello. Perse sette dita dei piedi per congelamento. Questa versione, contestata da alcuni che accusarono il maggiore di essere un "Caino" e di aver abbandonato il fratello pur di conquistare vetta e gloria, poté essere confermata solo nell'agosto 2005 quando fu ritrovata la salma, a circa quattromila metri. Messner ha scritto un libro sulla vicenda, da cui è stato tratto il film Nanga Parbat, la montagna del destino.


Sogno proibito. "Il Nanga Parbat è una delle montagne più ambite dell'Himalaya, e il più occidentale degli ottomila. Il suo massiccio, di dimensioni enormi, domina l'imponente gola del fiume Indo; è una visione impressionante, e io rimasi alcuni minuti senza fiato quando mi trovai per la prima volta di fronte a quella forza della natura. Da qualunque lato si affronti il Nanga Parbat, ci si trova sempre di fronte a 4000 metri di dislivello da superare, più che nella salita dell'Everest, tanto per fare un esempio". Con queste parole Hans Kammerlander apre il racconto della sua salita al Nanga Parbat, nel suo libro Malato di montagna. Inviolato d'inverno, ora, resta solo il K2, che già d'estate miete le sue vittime. La cima fu conquistata da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli in una storica spedizione del 1954, con l'aiuto di un giovane Walter Bonatti che trasportava le bombole di ossigeno. 

fonte: Alessandra Borella per La Repubblica




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