Nel mio studio, la stanza dove trascorro gran parte delle mie giornate, su un
ripiano della libreria che mi sta di fronte, tra le letture predilette di una vita, trova
posto una grande fotografia che ritrae il mio abbraccio con Giovanni Paolo II;
abbraccio, in verità, rivelato solo dallo sfiorarsi delle fronti. Non ho remore a
confessare che quell'istante fissato dalla macchina fotografica rappresenta per me
molto più che un ricordo. E' un'immagine che racchiude il senso profondo di una
intesa spirituale, di una corrente di umana simpatia avvertita fin dal primo incontro
con Giovanni Paolo.
Incontro avvenuto il 24 giugno del 1993. Ero in visita ufficiale
come Presidente del Consiglio dei ministri. Seduti uno di fronte all'altro, il colloquio
si protrasse ben oltre il tempo previsto dal protocollo. Quel primo incontro, quel
nostro primo parlarci, si svolse in un clima che percepii quasi subito "speciale".
Il
Papa certamente lo propiziò rilevando e sottolineando alcune coincidenze: lo stesso
anno di nascita e lo stesso nome di battesimo, che ci poneva entrambi - sono parole
sue, in seguito altre volte ripetute - sotto la protezione di San Carlo Borromeo.
Pochi
anni dopo, nel 1999, a queste si aggiunse un'altra coincidenza: l'elezione a Presidente
della Repubblica avvenuta il 13 di maggio, festa della Madonna di Fatima e
anniversario dell'attentato in Piazza San Pietro.
Nella quiete del mio studio, il pensiero si volge sovente all'indimenticato
Pontefice, "il mio fratello maggiore", come scherzosamente lo avevo definito per i
pochi mesi che separavano le nostre date di nascita; lo sguardo indugia su
quell'abbraccio, per trarne consiglio, conforto, incoraggiamento, serenità interiore.
Il rapporto con il Papa polacco resta per me un dono dei più preziosi tra quelli
che la vita mi ha fatto.
Il pudore che vela i sentimenti profondi mi trattiene dallo spalancare l'uscio che
ne protegge l'intimità, ma non frena il desiderio di condividere la ricchezza di quel
dono.
Nel corso del mandato presidenziale sempre ho sentito vicino Giovanni Paolo.
Ne avvertivo il sostegno: nella sollecitudine paterna del Pastore; nella guida illuminata, coraggiosa, profetica della sua parola; nel messaggio che con instancabile
impegno rivolgeva agli uomini del nostro tempo.
Ogni fine d'anno, al termine del tradizionale messaggio che il Presidente della
Repubblica rivolge agli italiani, tra le prime telefonate mi giungeva quella del Papa.
Ricordo , con emozione immutata, il 31 dicembre del 2002.
Era appena terminato il
collegamento televisivo, quando mi chiamò per dirmi: "La ringrazio, ci ha
commossi". L'indomani, all'Angelus, rinnovò pubblicamente il ringraziamento.
Il filo conduttore del mio messaggio era stato il "buongoverno"; buongoverno
che presuppone stabilità, rispetto delle istituzioni e delle regole, moralità nei
comportamenti pubblici e privati, superamento delle "fazioni e delle consorterie...per
il maggior bene dell'Italia; affinché gli Italiani fossero di un solo volere": questo
affermavo, richiamando le parole di un sacerdote che all'indomani dell'unità d'Italia
rendeva onore ai martiri di Belfiore. Auspicavo una intensificazione del senso di
solidarietà, dello spirito di condivisione. Un auspicio, il mio, che traeva forza proprio
dalle parole che il Papa aveva pronunciato poco tempo prima a Montecitorio. Egli
aveva esortato, infatti, l'Italia "per meglio esprimere le sue doti caratteristiche ... a
incrementare la sua solidarietà e coesione interna".
Solidarietà e coesione, pietra angolare della comunità nazionale; solidarietà e
coesione, aspirazione e impegno di tutti gli uomini di buona volontà. Della sterminata
moltitudine di genti, che sotto ogni latitudine, quale che fosse il proprio credo
religioso, ha sentito di dover prestare ascolto alla parola di Giovanni Paolo II. Era la
parola del pastore della Chiesa universale; era anche la parola del difensore
appassionato della persona umana, del suo valore, della sua dignità.
La dedizione totale di Giovanni Paolo al bene di ogni singolo uomo e a quello
dell'intera famiglia umana trova suggello nel suo prodigarsi senza risparmio e
incondizionatamente per la pace. Per la pace si è battuto con tutte le sue forze; il suo
fisico già minato dalla malattia sembrava ritrovare l'antico vigore quando invocava la pace; quando levava il suo grido contro la guerra; contro l'insensatezza della guerra,
dove si materializza il mysterium iniquitatis.
Credo che nella mente e nel cuore di molti resti incancellabile il ricordo
dell'incontro di Assisi. Certamente la memoria di quel giorno è scolpita dentro di me;
quando mi avvicinai al tripode per deporvi la lampada. Non senza emozione il Capo
dello Stato italiano faceva proprio l'invito, inusuale e inatteso, rivoltogli dal Santo
Padre.
Quel gesto di deporre le lampade da parte dei rappresentanti di diverse
confessioni religiose non era solo altamente simbolico e di grande suggestione; esso
era pegno di una volontà tesa a superare, al di là di ogni difficoltà, le divisioni, i
contrasti, gli "inciampi" che ostacolano il cammino dell'Uomo, che nonostante tutto,
nella profondità dell'anima aspira al Bene.
Quell'Uomo nel quale è dato osservare -
sono parole del Papa - "l'eloquente convergenza tra i versi di Ovidio: Vedo il meglio
e tuttavia mi rivolgo al peggio, e lo strazio di San Paolo: Sappiamo infatti che la
legge è spirituale, ma io sono essere di carne...non faccio il bene che amo, ma faccio
il male che odio".
Nello spirito di Assisi come in quello dell'incontro con i giovani a Tor Vergata
c'è il sigillo di Giovanni Paolo, della sua straordinaria intelligenza, che la mediazione
del cuore arricchisce e feconda. E intelligenza e cuore, non categorie antinomiche, ma
"virtù" complementari, erano spesso oggetto di conversazione attorno alla frugale
tavola del Papa, dove mia moglie e io prendevamo la prima colazione, dopo la Messa
che egli celebrava - fino a che la salute glielo consentì - nella sua cappellina. Con noi
partecipavano alla liturgia alcune Suore e Monsignor Stanislao.
Mi è difficile trovare
le parole per esprimere la ricchezza, la fecondità spirituale di quegli incontri,
straordinari e semplici, insieme. In seguito, quando non fu più in grado di celebrare,
ci invitava per il pranzo. Il Papa dialogava ormai quasi solo con cenni del capo, ma
non ne soffriva l'intensità dello scambio tra noi. Leggo nella mia agenda: Domenica
7 luglio 2003. In auto al Vaticano; Porta S. Anna. Ci dà il benvenuto Monsignor
3
Stanislao...Appartamento del Papa; viene Sua Santità e come sempre ci accoglie con
un abbraccio. A tavola. Sua Santità parla poco; anche lo sguardo è con occhi
semichiusi: ascolta con attenzione, interviene con brevi battute specie quando si
toccano temi attinenti al "cuore" più che all' "intelletto"...quando gli dico di pensarlo
spesso, la reazione è immediata: 'ed io l'ho qui' dice portandosi la destra sul cuore e
accompagnando il gesto con uno sguardo che si fa penetrante.
E fu lo sguardo, solo lo sguardo, a essere risparmiato dall'azione devastante
della malattia e della sofferenza.
Fino all'ultimo quello sguardo ha conservato - se è
possibile intensificato - la sua forza, il senso di coraggio che infondeva. Una forza
intatta, la stessa che si palesò in un tardo pomeriggio dell'ottobre 1978, quando Karol
Wojtyla, ormai Giovanni Paolo II - è il ricordo di André Frossard - "apparve per la
prima volta sui gradini di San Pietro, con una grande croce piantata davanti a sé
come una spada impugnata a due mani. Quando le sue prime parole "Non abbiate
paura"risuonarono sulla piazza , allora, in quello stesso istante tutti compresero che
qualcosa si era mosso in cielo, e che dopo l'uomo di buona volontà che aveva aperto
il Concilio, dopo il grande spirituale che lo aveva portato a termine, e dopo un
intermezzo dolce e fuggevole come un passaggio di colomba, Dio ci inviava un
testimone"
CARLO AZEGLIO CIAMPI, Presidente emerito della Repubblica Italiana
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