domenica 19 giugno 2016

Carlo Azeglio Ciampi e il fratello maggiore



Nel mio studio, la stanza dove trascorro gran parte delle mie giornate, su un ripiano della libreria che mi sta di fronte, tra le letture predilette di una vita, trova posto una grande fotografia che ritrae il mio abbraccio con Giovanni Paolo II; abbraccio, in verità, rivelato solo dallo sfiorarsi delle fronti. Non ho remore a confessare che quell'istante fissato dalla macchina fotografica rappresenta per me molto più che un ricordo. E' un'immagine che racchiude il senso profondo di una intesa spirituale, di una corrente di umana simpatia avvertita fin dal primo incontro con Giovanni Paolo. 
Incontro avvenuto il 24 giugno del 1993. Ero in visita ufficiale come Presidente del Consiglio dei ministri. Seduti uno di fronte all'altro, il colloquio si protrasse ben oltre il tempo previsto dal protocollo. Quel primo incontro, quel nostro primo parlarci, si svolse in un clima che percepii quasi subito "speciale". 
Il Papa certamente lo propiziò rilevando e sottolineando alcune coincidenze: lo stesso anno di nascita e lo stesso nome di battesimo, che ci poneva entrambi - sono parole sue, in seguito altre volte ripetute - sotto la protezione di San Carlo Borromeo. 
Pochi anni dopo, nel 1999, a queste si aggiunse un'altra coincidenza: l'elezione a Presidente della Repubblica avvenuta il 13 di maggio, festa della Madonna di Fatima e anniversario dell'attentato in Piazza San Pietro. Nella quiete del mio studio, il pensiero si volge sovente all'indimenticato Pontefice, "il mio fratello maggiore", come scherzosamente lo avevo definito per i pochi mesi che separavano le nostre date di nascita; lo sguardo indugia su quell'abbraccio, per trarne consiglio, conforto, incoraggiamento, serenità interiore. 
Il rapporto con il Papa polacco resta per me un dono dei più preziosi tra quelli che la vita mi ha fatto. Il pudore che vela i sentimenti profondi mi trattiene dallo spalancare l'uscio che ne protegge l'intimità, ma non frena il desiderio di condividere la ricchezza di quel dono. 
Nel corso del mandato presidenziale sempre ho sentito vicino Giovanni Paolo. Ne avvertivo il sostegno: nella sollecitudine paterna del Pastore; nella guida illuminata, coraggiosa, profetica della sua parola; nel messaggio che con instancabile impegno rivolgeva agli uomini del nostro tempo. 
Ogni fine d'anno, al termine del tradizionale messaggio che il Presidente della Repubblica rivolge agli italiani, tra le prime telefonate mi giungeva quella del Papa. Ricordo , con emozione immutata, il 31 dicembre del 2002. 
Era appena terminato il collegamento televisivo, quando mi chiamò per dirmi: "La ringrazio, ci ha commossi". L'indomani, all'Angelus, rinnovò pubblicamente il ringraziamento. Il filo conduttore del mio messaggio era stato il "buongoverno"; buongoverno che presuppone stabilità, rispetto delle istituzioni e delle regole, moralità nei comportamenti pubblici e privati, superamento delle "fazioni e delle consorterie...per il maggior bene dell'Italia; affinché gli Italiani fossero di un solo volere": questo affermavo, richiamando le parole di un sacerdote che all'indomani dell'unità d'Italia rendeva onore ai martiri di Belfiore. Auspicavo una intensificazione del senso di solidarietà, dello spirito di condivisione. Un auspicio, il mio, che traeva forza proprio dalle parole che il Papa aveva pronunciato poco tempo prima a Montecitorio. Egli aveva esortato, infatti, l'Italia "per meglio esprimere le sue doti caratteristiche ... a incrementare la sua solidarietà e coesione interna". 
Solidarietà e coesione, pietra angolare della comunità nazionale; solidarietà e coesione, aspirazione e impegno di tutti gli uomini di buona volontà. Della sterminata moltitudine di genti, che sotto ogni latitudine, quale che fosse il proprio credo religioso, ha sentito di dover prestare ascolto alla parola di Giovanni Paolo II. Era la parola del pastore della Chiesa universale; era anche la parola del difensore appassionato della persona umana, del suo valore, della sua dignità. 


La dedizione totale di Giovanni Paolo al bene di ogni singolo uomo e a quello dell'intera famiglia umana trova suggello nel suo prodigarsi senza risparmio e incondizionatamente per la pace. Per la pace si è battuto con tutte le sue forze; il suo fisico già minato dalla malattia sembrava ritrovare l'antico vigore quando invocava la pace; quando levava il suo grido contro la guerra; contro l'insensatezza della guerra, dove si materializza il mysterium iniquitatis. 
Credo che nella mente e nel cuore di molti resti incancellabile il ricordo dell'incontro di Assisi. Certamente la memoria di quel giorno è scolpita dentro di me; quando mi avvicinai al tripode per deporvi la lampada. Non senza emozione il Capo dello Stato italiano faceva proprio l'invito, inusuale e inatteso, rivoltogli dal Santo Padre. Quel gesto di deporre le lampade da parte dei rappresentanti di diverse confessioni religiose non era solo altamente simbolico e di grande suggestione; esso era pegno di una volontà tesa a superare, al di là di ogni difficoltà, le divisioni, i contrasti, gli "inciampi" che ostacolano il cammino dell'Uomo, che nonostante tutto, nella profondità dell'anima aspira al Bene. 
Quell'Uomo nel quale è dato osservare - sono parole del Papa - "l'eloquente convergenza tra i versi di Ovidio: Vedo il meglio e tuttavia mi rivolgo al peggio, e lo strazio di San Paolo: Sappiamo infatti che la legge è spirituale, ma io sono essere di carne...non faccio il bene che amo, ma faccio il male che odio"
Nello spirito di Assisi come in quello dell'incontro con i giovani a Tor Vergata c'è il sigillo di Giovanni Paolo, della sua straordinaria intelligenza, che la mediazione del cuore arricchisce e feconda. E intelligenza e cuore, non categorie antinomiche, ma "virtù" complementari, erano spesso oggetto di conversazione attorno alla frugale tavola del Papa, dove mia moglie e io prendevamo la prima colazione, dopo la Messa che egli celebrava - fino a che la salute glielo consentì - nella sua cappellina. Con noi partecipavano alla liturgia alcune Suore e Monsignor Stanislao. 
Mi è difficile trovare le parole per esprimere la ricchezza, la fecondità spirituale di quegli incontri, straordinari e semplici, insieme. In seguito, quando non fu più in grado di celebrare, ci invitava per il pranzo. Il Papa dialogava ormai quasi solo con cenni del capo, ma non ne soffriva l'intensità dello scambio tra noi. Leggo nella mia agenda: Domenica 7 luglio 2003. In auto al Vaticano; Porta S. Anna. Ci dà il benvenuto Monsignor 3 Stanislao...Appartamento del Papa; viene Sua Santità e come sempre ci accoglie con un abbraccio. A tavola. Sua Santità parla poco; anche lo sguardo è con occhi semichiusi: ascolta con attenzione, interviene con brevi battute specie quando si toccano temi attinenti al "cuore" più che all' "intelletto"...quando gli dico di pensarlo spesso, la reazione è immediata: 'ed io l'ho qui' dice portandosi la destra sul cuore e accompagnando il gesto con uno sguardo che si fa penetrante. E fu lo sguardo, solo lo sguardo, a essere risparmiato dall'azione devastante della malattia e della sofferenza
Fino all'ultimo quello sguardo ha conservato - se è possibile intensificato - la sua forza, il senso di coraggio che infondeva. Una forza intatta, la stessa che si palesò in un tardo pomeriggio dell'ottobre 1978, quando Karol Wojtyla, ormai Giovanni Paolo II - è il ricordo di André Frossard - "apparve per la prima volta sui gradini di San Pietro, con una grande croce piantata davanti a sé come una spada impugnata a due mani. Quando le sue prime parole "Non abbiate paura"risuonarono sulla piazza , allora, in quello stesso istante tutti compresero che qualcosa si era mosso in cielo, e che dopo l'uomo di buona volontà che aveva aperto il Concilio, dopo il grande spirituale che lo aveva portato a termine, e dopo un intermezzo dolce e fuggevole come un passaggio di colomba, Dio ci inviava un testimone" 

CARLO AZEGLIO CIAMPI, Presidente emerito della Repubblica Italiana

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