sabato 18 novembre 2017

Cantare e piangere



Le bandiere della Serenissima sono ovunque: sui balconi delle case, fuori dai bar, sui capannoni svuotati dalla crisi, nei vigneti di prosecco. Il leone è un simbolo secolare dell’identità italiana ed europea, ma qui simboleggia l’autonomia del Veneto rivendicata dal referendum, talora l’aspirazione all’indipendenza.
Quando i ragazzi del ’99 la attraversarono per andare al fronte era tra le regioni più povere d’Italia, oggi è la più ricca; e i separatisti sono sempre i ricchi, i poveri restano attaccati alla mammella dello Stato, che i loro antenati difesero un secolo fa. Veneti e calabresi, lombardi e sardi non si capivano, parlavano dialetti troppo diversi, ma erano uniti dalla miseria e dalla dignità contadine. Ora molte cose sono cambiate, anche il clima: sul Piave un vivaio ha messo a dimore ulivi e palme.

Miracolo sul fiume
Cent’anni fa, in questi stessi giorni, gli abitanti della zona videro arrivare 250 mila profughi friulani: stanchi, avviliti, terrorizzati. La loro terra era in fiamme. Gli italiani in ritirata avevano bruciato tutto, per non lasciare nulla agli invasori. Gli austriaci completarono la devastazione. Il prezzo della guerra fu pagato, come sempre, dalle donne. 
Anche da Fagaré, Breda, Nervesa ci si prepara a fuggire. Ma poi si vedono arrivare le avanguardie dell’«invitta» Terza Armata. Hanno ripiegato per oltre cento chilometri, incalzate dal nemico, senza disperdersi, e ora sono pronte a combattere.
Dal 9 novembre c’è un nuovo capo di Stato maggiore. Gli alleati hanno avuto la testa di Cadorna, di cui non si fidano più. Il successore è un napoletano: Armando Diaz. L’ordine è tenere il Piave, dal Grappa al mare, ma si teme di dover arretrare ancora. Il governo è nel panico: l’Italia si è liberata dal dominio austriaco solo da due generazioni, e ora il nemico secolare è alle porte di Venezia, vede la pianura padana, pregusta Milano e la resa di un vassallo umiliato. 
Gli austriaci passano il Piave nella notte tra l’11 e il 12 novembre. Piove da giorni, il fiume è in piena, ma riescono a gettare un ponte di barche, prendono Zenson. La prima brigata a entrare in linea è la Pinerolo, che si scontra corpo a corpo con le avanguardie nemiche, le ferma con i lanciafiamme e le baionette, mentre la 47° batteria di artiglieria da montagna batte la riva, massacrando amici e nemici.

Piangere e cantare
Il 16 novembre alle 5 del mattino è ancora buio, ma Fagaré è illuminata a giorno dalle granate, che sollevano nubi di ghiaia. Il 92° reggimento boemo sbuca dalla nebbia e investe il reggimento Novara, la difesa vacilla, scendono in campo i bersaglieri del 18°. 
Il capitano Francesco Rolando è ferito da una mitragliatrice, si fa medicare, torna alla testa dei suoi uomini, è colpito ancora, avrà la medaglia d’oro. È allora che il maggiore Guido Caporali, comandante dei due battaglioni delle reclute, riceve l’ordine di portarsi in prima linea. Alcuni soldati non hanno ancora compiuto diciotto anni. Sono arrivati in treno il giorno prima, terrorizzati dall’eco sorda del cannone e dall’odore di morte. Eppure non sbandano. Annoterà Diaz o il suo ufficio stampa, con una punta di retorica: «Li ho visti i Ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora». 
Nelle osterie della zona raccontano che fino a vent’anni fa i reduci venivano qui a ritrovarsi. Alla fine del pranzo univano i tavoli, disponevano le panche a quadrato, si prendevano sottobraccio e intonavano i canti di guerra: Tapum, il testamento del capitano, e ovviamente la canzone del Piave. Cantavano e piangevano. Ai nipoti incuriositi dal rito rispondevano che parlare della guerra era inutile. Chi sa, non ama ricordare. Chi non sa, non può capire. «Facciamo le sole cose che potevamo fare in trincea: cantare e piangere».



Memoria divisa
Ci sono ancora le trincee, a Fagaré, allagate dalla pioggia di questi giorni. Il Piave più che mormorare impreca, scorrendo impetuoso. Un cartello segnala il divieto di balneazione: qualche residente si è lamentato perché d’estate vengono i romeni a nuotare. Fagaré è frazione di San Biagio di Callalta, il paese di Giorgio Panto: re degli infissi da giardino, sponsor di Colpo grosso, fondatore di un partito venetista che nel 2006 sottrasse a Berlusconi 92 mila fatali voti, morto in elicottero sulla laguna di Venezia su un’isola di sua proprietà. 
Nel sacrario ci sono 5.191 soldati conosciuti e 5.350 ignoti. Charbonnier è sepolto accanto a Cicilli, Crapiz vicino a Coppola. Non c’è il tricolore, neanche qui. Il 4 novembre sono arrivati 81 visitatori, ma già il 6 non è venuto nessuno. È custodito il frammento di muro su cui la propaganda scrisse: «Tutti eroi! Il Piave o tutti accoppati!». Il Comune vicino, Breda, organizza il 17 novembre una ricostruzione della battaglia, titolo «Voliamo la pace!» , come da iscrizione ritrovata in trincea. Ma i fanti avevano ben chiaro che prima di fare la pace bisognava resistere.

Tre alpini ignoti
Sul Grappa cominciò a nevicare tra l’11 e il 12 novembre. Gli austriaci attaccano la notte successiva. Ci sono anche i tedeschi. È la battaglia cruciale. Il Grappa è un castello alto 1.650 metri a picco sulla pianura veneta: se cade, non ci sono ostacoli sino a Bologna o a Torino. I nostri cedono il Monte Santo, il Roncone, il Cismon. Gli alpini di Feltre salgono sul Tomatico riforniti di castagne e rosari dalle mogli: difendono le loro case; invano, la cima è presa, il paese invaso. Eppure il comandante nemico Von Bulow annota che il soldato italiano pare irriconoscibile: ora applica in modo spontaneo la difesa elastica; indietreggia per contrattaccare. Il Comando Supremo è spettatore: sul Grappa non arriva una sola direttiva. I sottufficiali si prendono l’autonomia prima negata. Il maggiore Scarampi senza attendere ordini sposta l’artiglieria e bersaglia i nemici arroccati al Colle dell’Orso; quando i superiori gli chiedono conto delle munizioni sparate risponde: «Pago io». Sull’Isonzo l’avrebbero fucilato; qui i suoi soldati lo acclamano. Tiene la IV Armata e tengono anche i reparti della II — le brigate Gaeta, Re, Massa Carrara, Messina, Trapani — «vilmente arresisi» a Caporetto secondo il primo bollettino ufficiale. Pure il mitico Rommel si scorna: sbaglia strada e finisce in una valle cieca (e qui pare di vedere Sordi e Gassman: «Tié!»). A metà dicembre la grande battaglia d’arresto è vinta.


Resti che parlano
Anche quest’anno sul Grappa è già nevicato. Altre bandiere con il Leone a Bassano, a Romano d’Ezzelino, lungo la strada Cadorna. Su un solo balcone sventolano due vessilli: quello veneto e quello bianconero della Juve. Un papà orgoglioso ha esposto un lenzuolo con la scritta: «Enrica vincitrice coppa italiana di Show Dance!». Dall’alto luccicano tre nastri: il Piave, il Brenta e il cantiere della Pedemontana, che langue per mancanza di soldi; la Regione sostiene che deve metterli il governo, il governo la Regione. Una scolaresca di Lodi combatte un’aspra battaglia a palle di neve. Un cartello chiede di aprire la caccia ai lupi che sbranano gli armenti e spaventano i muli. Al rifugio Val Tosella si cucina con più amore che in qualche ristorante stellato. Nell’ossario austriaco riposano fianco a fianco il tedesco Krauser e lo slavo Kratic, l’ungherese Kubatnyz e il polacco Koudelka. Le guide indicano ai bambini la lapide che ricorda un soldato di nome Peter Pan; ma i piccoli sono più colpiti dal telefono con la rotella del rifugio Bassano (qui il cellulare non prende). Altri tedeschi arrivarono nel 1944: animati dal ricordo della Resistenza dei padri, i partigiani avevano tentato di asserragliarsi quassù; furono fucilati o impiccati agli alberi di Bassano. Ogni tanto il Grappa restituisce un frammento della Grande Guerra: una baionetta, una giberna, un osso. Quest’anno sono stati ritrovati quattro corpi e un servizio di porcellane: era la mensa degli ufficiali austriaci, presi di sorpresa dagli arditi. Ci sono recuperanti specializzati col metal-detector, qualcuno per lucro, molti per il gusto della memoria. Altre lapidi sono state messe dalle famiglie: «Qui riposano tre alpini. Due dovrebbero essere i nostri nonni Angelo Vassalli e Romeo Gianuzzi. Se sono loro, questa scritta li ricorda. Se non sono loro, rende comunque omaggio agli alpini italiani».



La vera «Razza Piave»
Per il centenario di Caporetto sono usciti libri a decine, alcuni molto belli. Sul Piave e sul Grappa neanche uno. La sconfitta ci ispira. Ci raccontiamo di aver perso anche le poche guerre che abbiamo vinto. Oppure ci rifugiamo nella retorica, come il mito della «Razza Piave» rilanciato dall’ex sindaco di Treviso Gentilini. Ma sul Piave morirono veneti e lucani, napoletani e genovesi. La brigata Aosta sul Grappa era composta da siciliani: i valdostani erano quasi tutti morti. «Fu un meraviglioso fenomeno in una situazione straordinariamente incerta» riconobbe il generale Giardino, uno dei vice di Diaz (l’altro era Badoglio). «Il vero mistero di Caporetto è il riscatto che seguì appena venti giorni dopo» scrive Mario Silvestri. Nessuno dei motivi indicati dalla storia ufficiale spiega alcunché. Non il miglioramento del vitto, mai tanto scarso come in quei giorni. Non i turni di riposo, che non furono concessi. Non il nuovo governo: i fanti non sapevano neppure che quello vecchio era caduto. Non le truppe alleate, che entrano in linea ai primi di dicembre, dopo aver visto che gli italiani tengono. Non l’assicurazione gratuita, che è del gennaio 1918. Non il nuovo servizio propaganda, istituito il primo febbraio. Non i sussidi alle famiglie (4 maggio 1918). Non il morale della nazione, che era a terra; furono i soldati a risollevare i civili. Non si combatteva più in terra straniera, per conquistare montagne dal nome slavo, il Matajur e il Kuk, per avanzare in campagne dove non si sentiva una parola in italiano, per prendere città italianissime — Trento e Trieste — in cui però nessuno era mai stato. 
Si combatteva la guerra di casa, per difendere una patria giovane, per impedire che anche alle altre donne venisse fatto quello che stavano subendo le friulane e le venete al di là del Piave e del Grappa. Una guerra che ai nostri nonni, fanti contadini abituati a badare alla terra e alla famiglia, risultava quasi naturale. Se non giusta, inevitabile. Fu la vera nascita della nazione. E se fosse vivo ancora uno, uno solo, dei ragazzi del ’99, il suo racconto sarebbe utilissimo ai nostri figli e nipoti, cresciuti nel lamento — «ci stanno rubando il futuro!» — e nella rassegnazione, ormai quasi convinti che essere italiani sia una sfortuna; mentre essere italiani è una grande e a volte terribile responsabilità.

Aldo Cazzullo
Corriere della Sera, 10 novembre 2017 

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