domenica 24 luglio 2011

Da dove verrà l'aiuto?



«Sollevo i miei occhi verso i monti, da dove verrà l’aiuto?» (Salmo 121, 1). 
Il Salmista non aveva grandi vette davanti a sé: pellegrino verso Gerusalemme, il Monte Sion, spingeva lo sguardo verso un'altura spirituale, verso l’Altro che non poteva che trovarsi in alto rispetto alla comune condizione umana. 
Invocazione, imprecazione, distacco, estraniamento, abbandono: tutto questo esprimiamo con il nostro levare gli occhi al cielo, con lo sguardo proteso che pare aver bisogno di alture per poter davvero far spiccare il volo al nostro anelito.
In realtà, il nostro sguardo, anche quando si alza, "si posa" alla ricerca di un luogo in cui sostare per riprendere il cammino. Quante volte nell’ascendere verso una vetta fermiamo il passo, apparentemente per riprendere il fiato, in realtà per misurarci una volta ancora con l’altrove, segno di un Altro che sembra sempre rinviare l’appuntamento a una cima ulteriore, nascosta rispetto a quella più a ridosso di noi. 
Allora i nostri occhi si attardano a ripercorrere idealmente sentieri che paiono danzare attorno alle falde della montagna, visitano baite e villaggi, discendono lieti dalle cime innevate ai pendii boscosi fino ai pascoli verdeggianti, rincorrono gli irrefrenabili torrenti, si riflettono nelle calme acque di laghetti alpini...
La montagna invita a una duplice contemplazione, a due prospettive speculari e complementari: salendo si fissa lo sguardo sulla vetta, ci si protende verso l'"al-di-là", l'ulteriore, quasi a incalzare l'irraggiungibile di cui pure calchiamo le radici rocciose. Una volta in vetta, invece, lo sguardo si distende rappacificato in un volgersi che non è retrospettivo ma piuttosto onnicomprensivo: rileggiamo il percorso appena compiuto e nel contempo la realtà dalla quale ci siamo innalzati, abbracciamo con un solo sguardo il mondo che credevamo di conoscere e a volte, per pura grazia, come San Benedetto poco prima di morire, ci può essere dato di vedere «davanti agli occhi tutto intero il mondo, quasi raccolto sotto un unico raggio di sole» (cfr. Gregorio Magno, "Dialoghi 11,35"). 
La terra che tanto amiamo è lì, teneramente abbracciata al cielo cui aneliamo: questa duplice contemplazione che si dischiude nelle altezze parla alle profondità del nostro intimo e ci invita a intraprendere un viaggio la cui lunghezza non si può misurare perché fatto di memorie e di attese, di radici e di desiderio di spiccare il volo.
Capiamo meglio, allora, come mai la montagna – fosse anche «un'umile collina» come il Monte Sion celebrato nei Salmi o come il dolce declivio verso il Lago di Tiberiade che ha sentito scorrere sulla sua superficie la pace delle "Beatitudini" e lo sciamare delle folle benedette – ha sempre simboleggiato il distacco dal quotidiano per perseguire l'ascesa, una ricerca di sé non "autistica" ma aperta al futuro, all'inatteso. 



Sì, accostarsi alla montagna è un cammino di ascesa interiore, vissuto con tutto il proprio corpo: i sensi spirituali si affinano grazie a quanto sperimentano le nostre membra
Così l'incontro tra il cielo e la terra è evocato dalla contrapposizione tra l'orizzontale della pianura e il verticale del monte, le alterne vicende dell'esistenza paiono simboleggiate dalla sequenza di salite e discese, la leggerezza e la semplicità sono richieste affinché l'ascesa non sia frenata dall'attaccamento all'inutile o al superfluo, il discernimento è acuito e l'oblio contrastato dal non poter tralasciare nulla di essenziale, per quanto apparentemente trascurabile, la vigilanza è tenuta desta dallo scrutare i segni del tempo e del cielo... Anche il rarefarsi dell'aria, il repentino mutare delle condizioni meteorologiche, il brusco contrasto tra passaggi ombreggiati e accecanti riflessi di sole sulla neve contribuiscono a una purificazione che nasce dalla sorprendente scoperta di come la complementarietà degli opposti plasmi il nostro sentire interiore.
Sì, inoltrarsi in montagna – ma anche solo ripercorrere con la mente e con il cuore le balze che si sono imparate a conoscere dai "racconti biblici" e dalle narrazioni di quanti ci hanno preceduto nel cammino della vita – rappresenta una inesauribile esplorazione interiore: davvero, come scriveva Dag Hammarskjold, uomo di fede e amante della montagna, «il viaggio più lungo è il viaggio interiore». Un viaggio che richiede e al contempo stimola coraggio e resistenza, capacità di ascolto e di silenzio, solidarietà e fiducia in sé stessi e negli altri, attenta valutazione delle proprie forze per metterle al servizio di un'impresa nata in noi stessi ma destinata a dilatarsi su quanti ci stanno accanto.
Davvero muoversi «verso l'alto» può essere l'occasione non di irrefrenabile superbia ma, al contrario, di faticosa e liberante ascesi verso una dimensione più grande di noi e al contempo alla nostra portata. Da dove, infatti, ci verrà l'aiuto? «Dal Signore che ha fatto cielo e terra», canta il Salmo, dal Signore che ha voluto che cielo e terra si toccassero in un abbraccio infinito.

Enzo Bianchi (Jesus, maggio 2009)

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