martedì 24 gennaio 2012

La manona di Compagnoni

Giorgio Torelli, giornalista e scrittore di razza (Parma 1928) è autore di molti testi ambientati in montagna. Vi proponiamo, oggi,  un delizioso cammeo che vede come protagonisti il sacerdote don Carlo Bigi e il mitico Achille Compagnoni.


Achille Compagnoni (1914-2009)


E, ancora, fatemi dire quanto mi seduca - sempre - la statuina di Maria che il nostro amico don Carlo Bigi teneva nello zaino insieme allo speck, al formaggio, alla fiaschetta del fernet, al pane e all'uva passita quando scalò il Cervino e le diceva, lui a lei: "Coraggio Maria che ce la facciamo".

Don Carlo era nato in una casa di ringhiera, parlava con Dio in milanese e quando portava la Comunione ai malati lontani e prendeva un mezzo pubblico, diceva: "Signùr, te paghi el tram".
Una volta, a una suora di convento che gli faceva da chierichetta (c'erano solo loro due in una grande chiesa riservata) ha porto l'ostia, ma la reverenda s'è schermita con un fil di voce, quasi impaurita: "Ho già fatto la comunione stamattina!!" E il nostro amico, risalendo le scale dell'altare e infilandosi la particola in bocca: "Alòra, el mangi mi".

Questa confidenza con il Dio dei "chiodi alla Golgota", delle albe e dei tramonti, ci ha affascinato. Il nostro amico prete, quando confessava uno di noi due, prima mia moglie Carlina, poi me, si pervadeva di commozione per come l'Onnipotente, il Tutto, il Maestro che non ha mai finito di insegnare, accettasse di far transitare dalle sue mani di benedicente il flusso della Misericordia.

Il nostro amico gemeva nel ridire: "Ma come fa il Signore, così immenso, così nudo e cosi' sanguinante, a usare il poveraccio che sono io per mondare i cuori e trapiantare la pace? Come fa? Come accetta di farlo?" E allora toccava a noi consolare il prete. Non era più il confessore a rincuorare il penitente, ma il penitente a rianimare il confessore col dirgli, col garantirgli: "Il Signore si fida di te, reverendo, perché te sèt un galantom".


Giorgio Torelli

Una volta don Carlo giovane (è morto nel suo letto manzoniano a novantasei anni, assistito filialmente da un domestico cingalese e con la musica di Mahler in sottofondo), una volta, dicevo, s'è arrampicato sul Cervino insieme a una guida valdostana. E quando è stato al culmine ha voluto dir messa con un altarino da campo che s'era portato dentro lo zaino - lo dicevo prima - insieme all'uva passa, l'ostia da consacrare, impacchettata col pane e formaggio, la stola avvolta attorno alla bottiglietta di fernet.

E meno male che lassù, sulla cuspide del Cervino, era appena arrivato anche il famoso Compagnoni del K2, e che nelle scapricciate del vento dentro il gran sereno (una purezza azzurra) Compagnoni gli mise la manona sull'ostia o un turbine di vento a giravolta l'avrebbe fatta volare fino in Lussemburgo.

Che affetto aveva don Carlo per la corda e la piccozza di quell'ascensione portata fino al dunque, e che indulgenza manteneva ("Atto dovuto") per quel furfante che durante un trasloco gliele aveva fregate tutt'e due.

Don Carlo aveva posato corda e piccozza sotto il nespolo di un giardinetto milanese privato; un verde interno, riparato e fuori degli occhi. Ma era bastato un attimo di assenza perché i cimeli del Cervino sparissero.

Da allora don Carlo, in abituale, irreprensibile giacchetta nera stirata da lui stesso, appuntava il crocefisso al bavero, ma subito dietro, invisibile, teneva fissato a spilla il distintivo degli ascensionisti del Cervino, il segno di quel giorno lassù, dove aveva rifatto il Golgota, la via Crucis della Salita, e portato la Carne di Dio nella sacca proteggendola dalle "folate della Madonna", come aveva detto Compagnoni alla montanara.

Giorgio Torelli, Dal nostro inviato speciale nel Presepio, 2011

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