sabato 23 gennaio 2016

Sessanta anni fa a Cortina



Cortina d’Ampezzo, Olimpiade invernale. Sessant’anni. Accadde quattro anni prima di Roma ’60, quell’edizione estiva che con un veniale margine di retorica è solita essere evocata come l’ultima a dimensione umana. Forte delle eccezionali bellezze naturali, assediata dalle imponenti pareti del Cristallo, dell’Antelao e delle Tofane, per il mondo sportivo internazionale la località veneta fu una sorpresa e una rivelazione. Per le strutture ufficiali dello sport italiano, governato all’epoca dalla diarchia Giulio Onesti e Bruno Zauli, fu un innegabile successo organizzativo, oltre che punto di partenza e preziosa prova generale dell’evento per il quale quattro anni dopo sarebbe stato necessario mobilitare attorno alla Capitale le migliori energie nazionali.

Sulle tracce di una fiaccola accesa al Campidoglio, dal 26 gennaio al 5 febbraio 1956 convennero a Cortina atleti di 32 nazioni, Unione Sovietica compresa, all’esordio olimpico invernale e in testa alla classifica nel conteggio finale delle medaglie assegnate. Gli impianti: stadio del ghiaccio a quattro ordini di posti per cerimonie, pattinaggio artistico e hockey, stadio della neve per le gare di fondo, trampolino Olimpia con torre di 50 metri, pista di bob di 1700 metri e dislivello di 152, pattinaggio di velocità a Misurina, Tofane, Col Druscè e pista Livio Colli per le tre prove alpine, centro stampa all’Hotel Savoia.

Come a Roma ’60, l’apertura di quei Giochi invernali fu dichiarata dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Scendendo dall’Olimpia delle Tofane, la fiaccola venne portata a Cortina da Zeno Colò, primo olimpionico dello sci italiano nel ’52 sulle nevi di Oslo, trasferita in successione nelle mani di Severino Menardi, di Lino Lacedelli, uno degli uomini del K2, e dei tre fondisti superstiti dei primi Giochi invernali del 1924, Giuseppe Ghedina, Enrico e Vincenzo Colli, fino all’ultimo frazionista, Guido Caroli, pattinatore. La formula di giuramento, prima affidata a una donna, fu letta da Giuliana Minuzzo Chenal, terza ad Oslo in discesa, ancora terza nello slalom gigante a Squaw Valley nel ’60 e più volte vincitrice sulle principali piste europee.



Insieme con l’imbattibile forza d’urto messa in campo nelle prove di fondo da Norvegia, Finlandia e Svezia e nominalmente da Hallgeir Brenden, Veikko Hakulinen e Sixten Jernberg, incontrastato dominatore dell’Olimpiade ampezzana fu un famelico ventunenne austriaco dalle caviglie d’acciaio a nome Toni Sailer, nato in una delle località più esclusive delle stagioni sciistiche internazionali, Kitzbühel. Tra il 29 gennaio e il 3 febbraio, struttura fisica invidiabile, un sorriso a trentadue carati, l’austriaco realizzò quanto mai riuscito prima nella storia olimpica: tre gare, tre vittorie, discesa libera, slalom gigante, slalom speciale, con distacchi impressionanti, tra cui gli oltre sei secondi inflitti al connazionale Andreas Molterer in gigante. Con il quarto posto di Giuliana Minuzzo in discesa e nello speciale, i sesti di Carla Marchelli e Gino Burrini in discesa, l’Italia fece meraviglie nel bob, primi e secondi gli equipaggi Lamberto Dalla Chiesa-Giacomo Conti ed Eugenio Monti-Renzo Alverà, argento nella prova a quattro con Monti, Alverà, Ulrico Giardi e Renato Mocellini. Grande novità dei Giochi del 1956, la diretta televisiva, anticipatrice dell’impegno colossale che la Rai realizzerà quattro anni dopo nella Capitale.

Il mitico Zeno Colò

A distanza di sessanta anni, di quei Giochi quattro curiosità sopravvivono. L’inciampo su un cavo elettrico, la caduta a terra e la pronta ripresa di Guido Caroli, ultimo tedoforo, nel giro di pista finale. La ripetizione del giuramento per esigenze televisive, al di fuori della cerimonia ufficiale, da parte di Giuliana Minuzzo Chenal. Il rischio corso da Toni Sailer qualche minuto prima della discesa libera: la rottura della cinghia di uno scarpone risolta dall’intervento di Hansl Senger, istruttore della squadra italiana, tempestivo nel cedere all’austriaco una cinghia di ricambio. Quarta curiosità, la storia di Tenley Albright, pattinatrice, seriamente infortunatasi a Cortina due settimane prima dei Giochi, l’arrivo immediato del padre chirurgo di fama dagli Stati Uniti, l’operazione al Codivilla, la prodigiosa ripresa e, come ogni favola che si rispetti, la conquista della medaglia d’oro nell’artistico da parte della deliziosa ragazza del Massachusetts.
fonte: Il Tempo, Augusto Frasca, 19 gennaio 2016

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